Sangue e ossigeno
13 Novembre 2017
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Sangue e ossigeno

Lo scorso 1° ottobre, all’età di cinquant’anni, si è spento nella sua casa di Cassacco, in provincia di Udine, Pierluigi Cappello, una delle voci più limpide della poesia contemporanea, italiana e in friulano. Le sue poesie, che gli hanno fruttato il premio Montale Europa nel 2004 (con Dittico), i premi Pisa e Bagutta Opera Prima nel 2006 (con Assetto di volo) e il prestigioso premio Viareggio nel 2010 (con Mandate a dire all’imperatore), sono ora raccolte in due volumi, Azzurro elementare e Stato di quiete, usciti rispettivamente nel 2013 e nel 2016, entrambi per Rizzoli. Ma l’opera che meglio ne presenta la figura, soprattutto per chi vi si accosti la prima volta, è Questa libertà, il suo banco di prova nella scrittura narrativa, pubblicato sempre da Rizzoli nel 2013.

La libertà di Cappello è fatta di immaginazione, di parole e di versi. Versi che nascono prima di tutto dai luoghi in cui visse da bambino. Era nato a Gemona del Friuli nel 1967, ma cresciuto nella minuscola Chiusaforte, che, defilata in una stretta valle, “era stata investita soltanto da qualche spruzzo” di quella “grande mareggiata” che fu il boom economico degli anni Settanta. Lo ricorda ad esempio l’epica pagina che ritrae il padre, mentre, nell’estate del 1975, portava trionfalmente in casa sulle spalle una lavatrice Zoppas.

Versi che muovono poi da quella “faglia di precarietà” che gli si era aperta dentro la sera del 6 maggio 1976, quando Gemona venne devastata da un terremoto che causò quasi 400 morti. Al boato, che alle 21:02 “irrompeva dentro i corpi, facendoli esplodere di terrore”, sarebbe seguita la triste sistemazione di donne, bambini e anziani (che “vissero la seconda Caporetto della loro esistenza”) prima lungo il litorale adriatico, poi nei prefabbricati del campo Ceclis.

Versi che infine rimarginano le ferite. Tra le passioni che Cappello coltivava da ragazzo, oltre alla lettura – in particolare d’estate, in sella ad un ippocastano, tra le foglie che raccolgono e nascondono -, c’era quella per la corsa: cento metri in undici secondi e quattro, ad appena sedici anni. Ma un pomeriggio di settembre del 1983 tutto precipitò: un passaggio in moto da un amico, l’incidente, la morte dell’amico. Per Pierluigi, la recisione del midollo spinale, il calvario ospedaliero e, soprattutto, la condanna: “fine pena mai”, per la paralisi di tutti i muscoli degli arti inferiori. “Tuttavia”, scrive Cappello, “negli anni il letto si è trasformato in un tappeto volante, un luogo dove per un po’ ci si sottrae al mormorio del quotidiano e si vedono le cose da lontano e dall’alto, come se il letto avesse sostituito il colle dove ho vissuto la mia infanzia”. Così, sempre negli anni, anche le parole si sono trasformate: “nel sangue e nell’ossigeno” che attraversavano la sua carne, lasciando a lui “l’idea” – e a noi il nobile frammento di saggezza – “che il dolore può essere compreso. Che può essere portato dentro, intatto e inoffensivo, come un proiettile che si è fermato accanto al cuore e che nessun chirurgo è stato capace di estrarre. Tutto qui, se si ha la fortuna che le parole ti vengano incontro e che, nella comprensione, sciolgano il nodo del male in una forma di desolata serenità che ti accompagna per il resto della vita”.☺

 

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