saramago
1 Marzo 2010 Share

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Qualche anno fa in vacanza da amici, per un fortunato caso, è capitato fra le mie mani Le intermittenze della morte di Josè Saramago che mi ha felicemente colpito ed ho letto quindi tutto d’un fiato. Ultimamente una cara amica mi ha portato in regalo Cecità. Di nuovo a tu per tu con questo autore portoghese, Premio Nobel nel 1998, e con lo stesso piacere nel leggere un’altra vicenda  forte nei contenuti e visionaria nel suo snodarsi in un luogo sconosciuto per opera di una moltitudine di sconosciuti alle prese con improbabili avvenimenti di grande problematicità e di dubbia soluzione.

Lo stile personalissimo di Saramago precipita il lettore nel cuore della narrazione, nonostante l’assenza di accenni toponomastici o storici che contestualizzino la trama e la mancanza di riferimento a una qualsivoglia identità dei personaggi che non vengono mai dotati di un nome proprio. Il libro alterna la descrizione stringente e impietosa dei fatti ai dialoghi che vengono introdotti semplicemente da una lettera maiuscola. La perizia compositiva permette di districarsi agilmente tra gli esseri senza nome e, direi anche, senza volto dal momento che la cecità nega loro la visione di ogni aspetto fisico.

Un giorno qualunque, in un paese qualunque, ha inizio una strana e drammatica epidemia che rende ciechi, di una particolare cecità che invade gli occhi di una luce bianca al posto del buio consueto, che abbaglia e ottunde ugualmente la vista e porta al caos generale e al degrado fisico e morale dei malcapitati dopo l’inevitabile contagio. Gli antichi equilibri vengono sovvertiti. Se qualcuno riesce a mantenere dei sentimenti di solidarietà, questi si perdono nell’amplificarsi delle più turpi abiezioni che lo spirito di sopravvivenza spinge al massimo grado. Il triste spettacolo, partecipato dall’umanità di ciechi con l’immaginazione e con i rimanenti sensi che non possono fare a meno di sentire fetori e miasmi e di mantenere una sensazione tattile che, in primis, li rende consapevoli della sporcizia dei propri corpi, è invece tutto sotto gli occhi inorriditi, ma utili, di una donna che, unica fra tutti, ha mantenuto inspiegabilmente la vista. Diventa così, suo malgrado, testimone dei guasti dello sprofondamento nella notte dell’etica che accompagna chi non ha più occhi. Ma una simile condizione può generare parimenti una riflessione più profonda, un’attenzione ai veri bisogni umani e un’esigenza di nuove fondamenta per il vivere sociale che tengano finalmente in conto anche ciò che non siamo stati capaci di vedere veramente, quando ne avevamo tutte le capacità e le possibilità, in preda a quell’indifferenza che è causa delle maggiori sofferenze: “…per quanto ci costi ammetterlo, anche queste sporche realtà della vita vanno considerate in un racconto, con le budella in pace chiunque può avere delle idee, discutere, per esempio se esista un rapporto diretto fra gli occhi e i sentimenti, o se il senso di responsabilità sia la naturale conseguenza di una buona visione, ma quando la tortura incalza, quando il corpo ci fa impazzire di dolore e angoscia, allora sì, si vede che povero animale siamo”.

Poi, nello stesso modo misterioso, i ciechi progressivamente riacquistano la vista e tutto sembra tornare al proprio posto, ma nulla sarà mai come prima e avranno, ora più che mai, importanza quella serie di esperienze e di considerazioni fatte nei giorni bui di luce accecante che sono appena trascorsi; pensieri come questo: “I buoni e i cattivi risultati delle nostre parole e delle nostre azioni si vanno distribuendo, presumibilmente in modo alquanto uniforme ed equilibrato, in tutti i giorni del futuro, compresi quelli infiniti, in cui non saremo più qui per poterlo confermare, per congratularci o chiedere perdono. D’altro canto c’è chi dice sia questa l’immortalità di cui tanto si parla”.

Ora l’umanità può di nuovo aspirare a un futuro, intanto si appresta a vivere pienamente il futuro dell’oggi che sembrava irrimediabilmente compromesso dalla cecità. ☺

lisarizzoli@aliceposta.it

 

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