L’11 febbraio 1963, Sylvia posa accanto ai lettini dei bambini pane e latte, apre la finestra della loro camera e sigilla le fessure della porta con nastro adesivo e asciugamani bagnati. Anche in cucina sigilla tutte le fessure. Addormentata con la testa nel forno, la guancia appoggiata a un tovagliolo, il gas aperto. Così si presenta la scena della morte di Sylvia Plath, una scena da lei stessa costruita, lucidamente, per non lasciare nulla al caso.
“La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo”.
Edge (Limite) è l'ultima poesia scritta da Sylvia prima della sua morte, a soli trentuno anni. Edge significa anche orlo, ciglio, bordo, confine, filo di lama, vantaggio. Ultimo componimento di una vita dedicata alla scrittura, al difficile esperimento di far coincidere la letteratura con la vita, alla ricerca di uno spazio in cui non fosse tanto difficile vivere e in cui la poesia, la sua poesia, fosse accettata, letta, pubblicata e riconosciuta senza generare il dolore profondo che la perseguitava senza tregua.
“Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita. […] La scrittura è necessaria alla sopravvivenza del mio spocchioso equilibrio come il pane per il corpo. […] Ho bisogno di scrivere e di esplorare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, far uscire le parole che, esaminandosi, diranno tutto…”.
LIMITE
La donna ora è perfetta.
Il suo corpo
morto ha il sorriso del compimento,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nelle pieghe della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
siamo arrivati fin qui è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
È abituata a queste cose.
I suoi nei crepitano e tirano.
5 febbraio 1963
Sylvia Plath era attratta dalla perfezione fino al disumano, voleva essere perfetta. Lo stesso Ted Hughes, parlando di lei, afferma: “Era determinata all’eccellenza. In nessun aspetto della vita permetteva a se stessa di essere trascurata o inadeguata; in tutti voleva eccellere, in tutto aveva bisogno di perfezione. Soprattutto in poesia. Dietro alle sue poesie c’è una natura umana fiera, senza compromessi; la scrittura è la sua chance, la difesa che Sylvia adotta contro la paura di impazzire, il cappello da cui estrae risposte e parole che alleviano il dolore delle contraddizioni che derivano dall’incontro della sua vita pratica con le sue aspirazioni poetiche”.
“Oggi molto depressa. Incapace di scrivere alcunché. Dèi minacciosi. Mi sento esiliata su una stella fredda. […] Sono già morta”.
Lo si comprende sia leggendo le sue poesie sia, ancora meglio e in modo più esplicito, le sue pagine di diario che ci si presentano come percorso interiore, emotivo e intellettuale di un’artista e di una donna che nello spazio intimo delle sue confessioni private cercava di trovare la sua identità, il suo Io puro, autentico.
“Sono un groviglio di nervi senza identità. Ora so cos’è la solitudine, credo. Parte da un punto indefinito dell’Io: come una malattia del sangue che si diffonde in tutto il corpo sicché non si può localizzarne il focolaio. […] Non ho consistenza, sono vuota, dietro gli occhi sento una caverna pietrificata, un abisso infernale”.
Dalle pagine del suo diario si può evincere tutta la complessità di una vita che ha condotto una lotta tutta interna con le armi delle parole, che non si risparmia in giudizi e autocritiche, che cerca di far coincidere tutti i lati del puzzle per non perdersi nella confusione in cui è in grado di gettare il quotidiano. Sylvia ha un rapporto privilegiato con la morte, dialoga con lei, ne è affascinata, la corteggia in una sensuale danza di parole.
“Come un gatto ho nove vite da morire. Questa è la numero tre. La prima volta successe che avevo dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa a insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa come conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare e staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come un inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione”.
La sua natura è fatta di fili sottili che si intersecano, la cui materia e le cui proporzioni variano da individuo a individuo: parole scritte, cancellate, strappate, urlate, soffocate, digrignate, parole di silenzio ed eco lontane che ci raggiungono quando meno siamo pronti ad ascoltarle.☺
ninive@aliceposta.it
L’11 febbraio 1963, Sylvia posa accanto ai lettini dei bambini pane e latte, apre la finestra della loro camera e sigilla le fessure della porta con nastro adesivo e asciugamani bagnati. Anche in cucina sigilla tutte le fessure. Addormentata con la testa nel forno, la guancia appoggiata a un tovagliolo, il gas aperto. Così si presenta la scena della morte di Sylvia Plath, una scena da lei stessa costruita, lucidamente, per non lasciare nulla al caso.
“La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo”.
Edge (Limite) è l'ultima poesia scritta da Sylvia prima della sua morte, a soli trentuno anni. Edge significa anche orlo, ciglio, bordo, confine, filo di lama, vantaggio. Ultimo componimento di una vita dedicata alla scrittura, al difficile esperimento di far coincidere la letteratura con la vita, alla ricerca di uno spazio in cui non fosse tanto difficile vivere e in cui la poesia, la sua poesia, fosse accettata, letta, pubblicata e riconosciuta senza generare il dolore profondo che la perseguitava senza tregua.
“Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita. […] La scrittura è necessaria alla sopravvivenza del mio spocchioso equilibrio come il pane per il corpo. […] Ho bisogno di scrivere e di esplorare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, far uscire le parole che, esaminandosi, diranno tutto…”.
LIMITE
La donna ora è perfetta.
Il suo corpo
morto ha il sorriso del compimento,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nelle pieghe della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
siamo arrivati fin qui è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
È abituata a queste cose.
I suoi nei crepitano e tirano.
5 febbraio 1963
Sylvia Plath era attratta dalla perfezione fino al disumano, voleva essere perfetta. Lo stesso Ted Hughes, parlando di lei, afferma: “Era determinata all’eccellenza. In nessun aspetto della vita permetteva a se stessa di essere trascurata o inadeguata; in tutti voleva eccellere, in tutto aveva bisogno di perfezione. Soprattutto in poesia. Dietro alle sue poesie c’è una natura umana fiera, senza compromessi; la scrittura è la sua chance, la difesa che Sylvia adotta contro la paura di impazzire, il cappello da cui estrae risposte e parole che alleviano il dolore delle contraddizioni che derivano dall’incontro della sua vita pratica con le sue aspirazioni poetiche”.
“Oggi molto depressa. Incapace di scrivere alcunché. Dèi minacciosi. Mi sento esiliata su una stella fredda. […] Sono già morta”.
Lo si comprende sia leggendo le sue poesie sia, ancora meglio e in modo più esplicito, le sue pagine di diario che ci si presentano come percorso interiore, emotivo e intellettuale di un’artista e di una donna che nello spazio intimo delle sue confessioni private cercava di trovare la sua identità, il suo Io puro, autentico.
“Sono un groviglio di nervi senza identità. Ora so cos’è la solitudine, credo. Parte da un punto indefinito dell’Io: come una malattia del sangue che si diffonde in tutto il corpo sicché non si può localizzarne il focolaio. […] Non ho consistenza, sono vuota, dietro gli occhi sento una caverna pietrificata, un abisso infernale”.
Dalle pagine del suo diario si può evincere tutta la complessità di una vita che ha condotto una lotta tutta interna con le armi delle parole, che non si risparmia in giudizi e autocritiche, che cerca di far coincidere tutti i lati del puzzle per non perdersi nella confusione in cui è in grado di gettare il quotidiano. Sylvia ha un rapporto privilegiato con la morte, dialoga con lei, ne è affascinata, la corteggia in una sensuale danza di parole.
“Come un gatto ho nove vite da morire. Questa è la numero tre. La prima volta successe che avevo dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa a insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa come conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare e staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come un inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione”.
La sua natura è fatta di fili sottili che si intersecano, la cui materia e le cui proporzioni variano da individuo a individuo: parole scritte, cancellate, strappate, urlate, soffocate, digrignate, parole di silenzio ed eco lontane che ci raggiungono quando meno siamo pronti ad ascoltarle.☺
L’11 febbraio 1963, Sylvia posa accanto ai lettini dei bambini pane e latte, apre la finestra della loro camera e sigilla le fessure della porta con nastro adesivo e asciugamani bagnati. Anche in cucina sigilla tutte le fessure. Addormentata con la testa nel forno, la guancia appoggiata a un tovagliolo, il gas aperto. Così si presenta la scena della morte di Sylvia Plath, una scena da lei stessa costruita, lucidamente, per non lasciare nulla al caso.
“La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo”.
Edge (Limite) è l'ultima poesia scritta da Sylvia prima della sua morte, a soli trentuno anni. Edge significa anche orlo, ciglio, bordo, confine, filo di lama, vantaggio. Ultimo componimento di una vita dedicata alla scrittura, al difficile esperimento di far coincidere la letteratura con la vita, alla ricerca di uno spazio in cui non fosse tanto difficile vivere e in cui la poesia, la sua poesia, fosse accettata, letta, pubblicata e riconosciuta senza generare il dolore profondo che la perseguitava senza tregua.
“Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita. […] La scrittura è necessaria alla sopravvivenza del mio spocchioso equilibrio come il pane per il corpo. […] Ho bisogno di scrivere e di esplorare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, far uscire le parole che, esaminandosi, diranno tutto…”.
LIMITE
La donna ora è perfetta.
Il suo corpo
morto ha il sorriso del compimento,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nelle pieghe della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
siamo arrivati fin qui è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
È abituata a queste cose.
I suoi nei crepitano e tirano.
5 febbraio 1963
Sylvia Plath era attratta dalla perfezione fino al disumano, voleva essere perfetta. Lo stesso Ted Hughes, parlando di lei, afferma: “Era determinata all’eccellenza. In nessun aspetto della vita permetteva a se stessa di essere trascurata o inadeguata; in tutti voleva eccellere, in tutto aveva bisogno di perfezione. Soprattutto in poesia. Dietro alle sue poesie c’è una natura umana fiera, senza compromessi; la scrittura è la sua chance, la difesa che Sylvia adotta contro la paura di impazzire, il cappello da cui estrae risposte e parole che alleviano il dolore delle contraddizioni che derivano dall’incontro della sua vita pratica con le sue aspirazioni poetiche”.
“Oggi molto depressa. Incapace di scrivere alcunché. Dèi minacciosi. Mi sento esiliata su una stella fredda. […] Sono già morta”.
Lo si comprende sia leggendo le sue poesie sia, ancora meglio e in modo più esplicito, le sue pagine di diario che ci si presentano come percorso interiore, emotivo e intellettuale di un’artista e di una donna che nello spazio intimo delle sue confessioni private cercava di trovare la sua identità, il suo Io puro, autentico.
“Sono un groviglio di nervi senza identità. Ora so cos’è la solitudine, credo. Parte da un punto indefinito dell’Io: come una malattia del sangue che si diffonde in tutto il corpo sicché non si può localizzarne il focolaio. […] Non ho consistenza, sono vuota, dietro gli occhi sento una caverna pietrificata, un abisso infernale”.
Dalle pagine del suo diario si può evincere tutta la complessità di una vita che ha condotto una lotta tutta interna con le armi delle parole, che non si risparmia in giudizi e autocritiche, che cerca di far coincidere tutti i lati del puzzle per non perdersi nella confusione in cui è in grado di gettare il quotidiano. Sylvia ha un rapporto privilegiato con la morte, dialoga con lei, ne è affascinata, la corteggia in una sensuale danza di parole.
“Come un gatto ho nove vite da morire. Questa è la numero tre. La prima volta successe che avevo dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa a insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa come conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare e staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come un inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione”.
La sua natura è fatta di fili sottili che si intersecano, la cui materia e le cui proporzioni variano da individuo a individuo: parole scritte, cancellate, strappate, urlate, soffocate, digrignate, parole di silenzio ed eco lontane che ci raggiungono quando meno siamo pronti ad ascoltarle.☺
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