Oggi è primavera, il cielo è sereno, azzurro terso percorso da nuvolette che corrono velocissime; ha una profondità il cielo di Buenos Aires, che ti entra dentro.
Sono ormai nove mesi che siamo qua e sono successe tante cose: nuova casa, lavoro, amici, nuove sensazioni. È un po' come una seconda adolescenza, una seconda opportunità di inventare la tua vita, la possibilità di uscire dai binari sicuri, ma anche vincolanti della vita quotidana lì nella Padania.
Certo la quotidianità incombe ad ogni latitudine: il lavoro, la scuola, le corse, il bebè che non dorme la notte. Ma il cambiamento ti aiuta a porti, con più intensità le domande di sempre: perché qualcuno ha voluto che noi venissimo qui? Che cosa possiamo fare, costruire, donare? E tutto acquista una diversa profondità.
E poi l'Argentina è un paese che sa farsi amare, passionale e triste, come il suo tango, caotico e incasinato, con la sua disarmante povertà e la sua ostentata ricchezza, con la evidente ingiustizia delle sue enormi differenze sociali.
E mette a nudo tutta la nostra ipocrisia di europei benestanti che sanno che l'ingiustizia e la povertà esistono, ma stanno al di là del Mediterraneo e in fondo non sono affari nostri. E poi noi gente sensibile e impegnata partecipiamo a dibattiti, raccolte fondi, agricoltura biologica e riciclo e la nostra coscienza può stare tranquilla. Ma qui noi la nostra ipocrisia non la possiamo nascondere, con la nostra casa in uno dei quartieri più belli della città, il nostro stipendio in euro e il passaporto consolare. L'ipocrisia ti rode dentro ogni volta che passi davanti agli sterminati quartieri di lamiere e fango, ogni volta che una bambina di otto anni da sola in strada alle tre del mattino ti chiede "una moneda".
Però ti colpisce sempre un po' di meno, ci si adatta a tutto e poi, come dice Arundati Roy, "la povertà degli altri è come la puzza, è facile abituarvisi, è tutta questione di rigore, impegno e aria condizionata". "Solo le pido a diós que el dolor no me sea indiferente" cantava Lèon Gieco durante il periodo della dittatura.
E allora hai di nuovo voglia di cambiare il mondo e ti riprende quella incazzatura piena di speranze e sogni dei migliori anni dei cortei e delle manifestazioni, del sudamerica lontano e mitizzato del Che e degli Intillimani, o di vivere con sempre maggior profondità la pace dei momenti di preghiera che ti danno la certezza che un mondo migliore è possibile.
E in tutto questo casino di sensazioni, paure e sogni vi mandiamo un abbraccio forte, perché è bello sapere che ci siete. ☺
a.dimuccio@tiscali.it
Oggi è primavera, il cielo è sereno, azzurro terso percorso da nuvolette che corrono velocissime; ha una profondità il cielo di Buenos Aires, che ti entra dentro.
Sono ormai nove mesi che siamo qua e sono successe tante cose: nuova casa, lavoro, amici, nuove sensazioni. È un po' come una seconda adolescenza, una seconda opportunità di inventare la tua vita, la possibilità di uscire dai binari sicuri, ma anche vincolanti della vita quotidana lì nella Padania.
Certo la quotidianità incombe ad ogni latitudine: il lavoro, la scuola, le corse, il bebè che non dorme la notte. Ma il cambiamento ti aiuta a porti, con più intensità le domande di sempre: perché qualcuno ha voluto che noi venissimo qui? Che cosa possiamo fare, costruire, donare? E tutto acquista una diversa profondità.
E poi l'Argentina è un paese che sa farsi amare, passionale e triste, come il suo tango, caotico e incasinato, con la sua disarmante povertà e la sua ostentata ricchezza, con la evidente ingiustizia delle sue enormi differenze sociali.
E mette a nudo tutta la nostra ipocrisia di europei benestanti che sanno che l'ingiustizia e la povertà esistono, ma stanno al di là del Mediterraneo e in fondo non sono affari nostri. E poi noi gente sensibile e impegnata partecipiamo a dibattiti, raccolte fondi, agricoltura biologica e riciclo e la nostra coscienza può stare tranquilla. Ma qui noi la nostra ipocrisia non la possiamo nascondere, con la nostra casa in uno dei quartieri più belli della città, il nostro stipendio in euro e il passaporto consolare. L'ipocrisia ti rode dentro ogni volta che passi davanti agli sterminati quartieri di lamiere e fango, ogni volta che una bambina di otto anni da sola in strada alle tre del mattino ti chiede "una moneda".
Però ti colpisce sempre un po' di meno, ci si adatta a tutto e poi, come dice Arundati Roy, "la povertà degli altri è come la puzza, è facile abituarvisi, è tutta questione di rigore, impegno e aria condizionata". "Solo le pido a diós que el dolor no me sea indiferente" cantava Lèon Gieco durante il periodo della dittatura.
E allora hai di nuovo voglia di cambiare il mondo e ti riprende quella incazzatura piena di speranze e sogni dei migliori anni dei cortei e delle manifestazioni, del sudamerica lontano e mitizzato del Che e degli Intillimani, o di vivere con sempre maggior profondità la pace dei momenti di preghiera che ti danno la certezza che un mondo migliore è possibile.
E in tutto questo casino di sensazioni, paure e sogni vi mandiamo un abbraccio forte, perché è bello sapere che ci siete. ☺
Oggi è primavera, il cielo è sereno, azzurro terso percorso da nuvolette che corrono velocissime; ha una profondità il cielo di Buenos Aires, che ti entra dentro.
Sono ormai nove mesi che siamo qua e sono successe tante cose: nuova casa, lavoro, amici, nuove sensazioni. È un po' come una seconda adolescenza, una seconda opportunità di inventare la tua vita, la possibilità di uscire dai binari sicuri, ma anche vincolanti della vita quotidana lì nella Padania.
Certo la quotidianità incombe ad ogni latitudine: il lavoro, la scuola, le corse, il bebè che non dorme la notte. Ma il cambiamento ti aiuta a porti, con più intensità le domande di sempre: perché qualcuno ha voluto che noi venissimo qui? Che cosa possiamo fare, costruire, donare? E tutto acquista una diversa profondità.
E poi l'Argentina è un paese che sa farsi amare, passionale e triste, come il suo tango, caotico e incasinato, con la sua disarmante povertà e la sua ostentata ricchezza, con la evidente ingiustizia delle sue enormi differenze sociali.
E mette a nudo tutta la nostra ipocrisia di europei benestanti che sanno che l'ingiustizia e la povertà esistono, ma stanno al di là del Mediterraneo e in fondo non sono affari nostri. E poi noi gente sensibile e impegnata partecipiamo a dibattiti, raccolte fondi, agricoltura biologica e riciclo e la nostra coscienza può stare tranquilla. Ma qui noi la nostra ipocrisia non la possiamo nascondere, con la nostra casa in uno dei quartieri più belli della città, il nostro stipendio in euro e il passaporto consolare. L'ipocrisia ti rode dentro ogni volta che passi davanti agli sterminati quartieri di lamiere e fango, ogni volta che una bambina di otto anni da sola in strada alle tre del mattino ti chiede "una moneda".
Però ti colpisce sempre un po' di meno, ci si adatta a tutto e poi, come dice Arundati Roy, "la povertà degli altri è come la puzza, è facile abituarvisi, è tutta questione di rigore, impegno e aria condizionata". "Solo le pido a diós que el dolor no me sea indiferente" cantava Lèon Gieco durante il periodo della dittatura.
E allora hai di nuovo voglia di cambiare il mondo e ti riprende quella incazzatura piena di speranze e sogni dei migliori anni dei cortei e delle manifestazioni, del sudamerica lontano e mitizzato del Che e degli Intillimani, o di vivere con sempre maggior profondità la pace dei momenti di preghiera che ti danno la certezza che un mondo migliore è possibile.
E in tutto questo casino di sensazioni, paure e sogni vi mandiamo un abbraccio forte, perché è bello sapere che ci siete. ☺
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