utopia operante
14 Aprile 2010 Share

utopia operante

 

Chi controlla il passato controlla anche il futuro. Questo il motivo per cui da quarant’anni si tenta di archiviare la stagione delle speranze come la causa di tutti i mali.

Nel 1968, donne e uomini in tutto il pianeta lottarono contro i fondamenti sui quali si era arroccato il Potere. Non sognavano di conquistarlo, lottavano per decidere del loro futuro contro la guerra, l’ingiustizia, la fame, l’indifferenza, la corruzione; lo fecero alla luce del sole in America, in Europa, nei paesi asiatici; senza prendere accordi si ritrovarono a lottare per le stesse ragioni.

 Il Potere, denudato dalla coltre di ipocrisie, reagì con violenza e siccome si possono bastonare le persone ma non le idee, ancora oggi c’è qualche becchino che tenta di seppellirle.

Quel movimento ha fatto e fa ancora tanta paura ai potenti. Perché? Quanto ancora bisogna aspettare per sottrarre questa materia al giudizio, ancorché autorevole, dei protagonisti e affidarla alla riflessione scientifica degli storici? Si scoprirebbe da subito che i giovani di allora si svegliavano la mattina con la curiosità di scoprire cosa sarebbe accaduto al mondo, perché lo sentivano parte di se stessi; volevano viverci in quel mondo, sognando di cambiarlo.

Nei prossimi mesi ascolteremo qualche ciarlatano che in ossequio alla consegna di controllare il passato, lo pagano per questo, invece di parlarci del ‘68 ci parlerà del terrorismo. Non sarà necessario indagare a fondo per scoprire di chi si tratta; anche lui ha scritto qualche pagina di quella storia straordinaria ma oggi trova più conveniente difendere le ragioni della guerra, del profitto e contemporaneamente quelle della vita. Non è in contraddizione con ciò che pensava prima, è solo in stato confusionale.

La restaurazione non si fermerà, scenderanno in campo conservatori di ogni chiesa per cancellare il passato. Che necessità avrebbe Benedetto XVI per dire che il ‘68 segna “l’inizio o l’esplosione della grande crisi culturale dell’Occidente”? Sono i mutamenti del ‘68 che lo preoccupano o il concilio ecumenico Vaticano II, anch’esso anticipatore di quei mutamenti? O è veramente convinto che sia stato il suo predecessore a far cadere il muro di Berlino? Perché se così fosse, non si capisce bene il motivo per cui non abbia risolto tanti altri conflitti anch’essi meritevoli delle cure di un Papa. Fu la coscienza globale, per usare le parole di Mario Capanna, affiorata in quegli anni, che determinò la fine del regime comunista nei paesi dell’est europeo, non altro. Il ’68 come un fiume in piena, straripò in ogni direzione: tutti vi attinsero, il mondo non fu più come prima.

 La repressione non tardò ad arrivare sia ad est che ad ovest, la posta in gioco era alta, quello che veniva messo in discussione non era la democrazia, come qualche somaro ancora si ostina a sostenere, ma la finta democrazia, quella che nel nostro paese non ha voluto rendere giustizia alle vittime delle stragi a cominciare da quella di Piazza Fontana fino al pestaggio dei giovani no global, al G8 di Genova. La stessa che in America non fece sconti a Martin Luther King e in sud America si coprì di vergogna per il sostegno, non gratuito, a spietati dittatori. Non diversa fu quella sudafricana che fece invecchiare nelle patrie galere Nelson Mandela. Nei paesi dell’Est i sovietici applicarono il protocollo già sperimentato con successo in Ungheria nel ‘56: mandarono i carri armati contro chi aveva il torto di essersi dato fuoco per la libertà. Di carne a cuocere ce n’era molta e tutta di qualità. Basta osservare ciò che è accaduto dal sessantotto ad oggi per rendersi conto in quale degrado culturale e morale sono finite le nostre istituzioni.

Furono profetici i giovani di allora nell’indicare i rischi che una democrazia sì concepita avrebbe corso: guarda caso, nella nostra italietta, non solo non vi è una democrazia diretta, “non pretendiamo tanto” (è noto a tutti che il referendum sulla legge elettorale non si farà mai), ma neanche quella indiretta o rappresentativa. Gli esportatori di democrazia ci hanno consegnato una legge elettorale di stampo sovietico: si vota sul simbolo e basta.

 I rischi che le democrazie Occidentali stavano correndo furono oggetto di riflessioni più acute di quella espressa nei confronti del nostro paese, sempre a fare i conti tra il comico, il grottesco e il berlusconesco.

Se il 10% della popolazione mondiale possiede l’85% della ricchezza planetaria, come è possibile che il restante 90%, democraticamente, non decida di ridurre questo divario? La risposta è semplice: “perché la politica è ridotta a un ruolo marginale nelle decisioni che vengono prese dai poteri economici e finanziari”, ovvero il 90% della popolazione mondiale, in questa democrazia, ha un peso inferiore all’altro 10%. A meno che non si voglia pensare che la stragrande maggioranza  abbia scelto di vivere in un apartheid economico dove a decidere delle sorti del pianeta sia appena il10% della popolazione.

I detrattori e i pentiti del ’68 oggi sanno, ancora di più ieri, che un “equilibrio” di questo tipo  è insostenibile, così come non è sostenibile lo sfruttamento illimitato del globo terrestre; eppure continuano tranquillamente a danzare sul Titanic che affonda.

Il  “nostro” pianeta, ieri lo dicevano quei giovani stravaganti, oggi lo affermano gli scienziati che hanno redatto un rapporto per l’ONU, possiede risorse limitate che andrebbero, in un sistema equo e solidale, ridistribuite a tutti, tenendo presente che proprio perché “il pianeta è di tutti” andrebbe curato e rispettato da ognuno. Ma cosa c’è di tanto rivoluzionario in questa idea? Perché questa ipotesi provoca incubi ai potenti? Di dirompente c’è il dato incontestabile delle risorse limitate di cui dispone il nostro globo terrestre, certezza che contraddice tutta l’impostazione economica fondata sui consumi e quindi sul profitto, oltre la inevitabile rottura di ogni subordinazione tra gli uomini e tra questi e il pianeta: in sostanza, il 90% della popolazione globale, con questa impostazione, come è giusto che sia, torna a decidere sulle sorti sue e del pianeta.

Non siamo nostalgici: sperare in un nuovo ’68 sarebbe alquanto patetico. Crediamo invece che l’offerta, pregna di valori culturali, fatta da quella straordinaria generazione verso il mondo, fu l’occasione perduta di una classe dirigente cinica e orba. I mutamenti in atto seguono percorsi inesplorati e di difficile interpretazione; non possiamo che accompagnarli consapevoli del ritardo accumulato. ☺

 

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