Parlare di gang [pronuncia: ghengh] rimanda ai film d’azione, soprattutto americani, con protagonisti, quasi sempre, un affascinante attore “holliwoodiano” e la sua non meno attraente partner (=collega), impegnati in “rocambolesche” avventure e destinati al consueto lieto fine: successo e vittoria per entrambi. Eppure gang e il sostantivo derivato gangster [pronuncia: ghengster] appartengono all’area semantica della criminalità: indicano, il primo, il gruppo di malviventi che si organizzano per effettuare le loro azioni “fuori legge”, il secondo, la persona componente la suddetta banda, il criminale appunto, conservando il sostantivo la stessa radice: gang!
Questi termini purtroppo non contemplano elementi positivi: ritraggono piuttosto gli aspetti peggiori della convivenza sociale, si traducono – nella realtà – in azioni illegali quando non in crimini; eppure assurgono a modelli conosciuti, “celebrati” e… sotto sotto apprezzati! Potenza dei mezzi di comunicazione di massa, che riescono a “trasfigurare” in un’ottica di “fiction” ciò che non ha nulla di meritevole!
La cronaca recente, e non solo, ha riproposto nel nostro paese il problema della convivenza di nazionalità diverse. Nelle grandi città, come nei piccoli centri, ed anche nella nostra regione, il Molise, si sono verificati episodi di intolleranza che, pur se circoscritti e naturalmente criticati da gran parte dell’opinione pubblica, impongono un’attenta riflessione. Limitarsi ad una generica e non sempre convinta condanna verbale? E assumere lo stesso atteggiamento che si ha davanti ad una scena di “fiction”? No, la presa di posizione dovrebbe essere netta e consapevole. A cominciare dalle parole che vengono utilizzate.
Non sarà certamente sfuggito l’uso del termine skinhead [pronuncia: “schinhed”] per descrivere il giovane con la testa rasata e stivali anfibi ai piedi, protagonista di spedizioni punitive nei confronti soprattutto di extracomunitari. Con questa parola inglese ormai vengono indicati quei giovani che in gruppo si dedicano ad atti di teppismo o guerriglia urbana, che non nascondono simpatie neonaziste e xenofobe; tra gli skinhead si annoverano, infatti, i naziskin [pronuncia: “nazischin”]. Il vocabolo skinhead è composto da due sostantivi: “skin” che vuol dire “pelle”, e “head” che significa “testa”; il significato del termine è quindi “testa rasata”. La frangia dei naziskin richiama nella sua denominazione il legame con il partito nazionalsocialista di Hitler.
E’ interessante notare che il movimento degli skinhead non è di recente formazione, né ha avuto sempre una collocazione politica di estrema destra. Questo movimento è sorto, infatti, a seguito di rivendicazioni sociali negli anni sessanta in Gran Bretagna; accoglieva i giovani della classe operaia inglese, reclutati nelle periferie delle città, nei quartieri dormitorio in cui si ammassavano le famiglie del sottoproletariato insieme agli immigrati dalle Indie occidentali. I giovani proletari inglesi sentivano in prima persona il compito di rappresentare la propria classe sociale: lo skinhead si riconosceva pienamente nella classe sfruttata, sapeva di essere oggetto di critiche e disprezzo da parte dei borghesi e degli aristocratici, ricambiava il medesimo sentimento e non aspirava ad un cambiamento. Le aspettative dei giovani contestatori, dei “figli dei fiori”, non lo interessavano, anzi le combatteva. La sua figura incarnava lo sfruttamento della classe operaia: svolgeva per lo più lavori manuali, detestava i borghesi, non sopportava la polizia. Il suo aspetto e il suo modo di vestire erano legati al mestiere svolto: testa rasata e stivali anfibi fronteggiavano scarse condizioni igieniche e di sicurezza, costituivano precauzioni contro infortuni o infezioni.
Nei decenni successivi, anche grazie alle mutate condizioni di vita della classe operaia britannica, il movimento degli skinhead ha perso la sua connotazione di protesta sociale, si è frantumato in gruppi di tendenza o di moda, alcuni prevalentemente legati ai generi musicali contemporanei. Sul piano sociale è stato lasciato oggi campo libero alla frangia dei naziskin, che riemerge sulla scena facendo parlare di sé soprattutto per la violenza delle azioni, per l’aggressione dimostrata nei confronti di persone di nazionalità diversa, per le idee xenofobe che proclama e diffonde, non più soltanto in Gran Bretagna.
Dagli anni ottanta anche l’Italia accoglie queste tendenze. Viene da chiedersi se sia una moda “transitoria”. Facciamo attenzione: lo stile italico spesso rende definitivo ciò che inizialmente si presenta come transitorio! ☺
dario.carlone@tiscali.it
Parlare di gang [pronuncia: ghengh] rimanda ai film d’azione, soprattutto americani, con protagonisti, quasi sempre, un affascinante attore “holliwoodiano” e la sua non meno attraente partner (=collega), impegnati in “rocambolesche” avventure e destinati al consueto lieto fine: successo e vittoria per entrambi. Eppure gang e il sostantivo derivato gangster [pronuncia: ghengster] appartengono all’area semantica della criminalità: indicano, il primo, il gruppo di malviventi che si organizzano per effettuare le loro azioni “fuori legge”, il secondo, la persona componente la suddetta banda, il criminale appunto, conservando il sostantivo la stessa radice: gang!
Questi termini purtroppo non contemplano elementi positivi: ritraggono piuttosto gli aspetti peggiori della convivenza sociale, si traducono – nella realtà – in azioni illegali quando non in crimini; eppure assurgono a modelli conosciuti, “celebrati” e… sotto sotto apprezzati! Potenza dei mezzi di comunicazione di massa, che riescono a “trasfigurare” in un’ottica di “fiction” ciò che non ha nulla di meritevole!
La cronaca recente, e non solo, ha riproposto nel nostro paese il problema della convivenza di nazionalità diverse. Nelle grandi città, come nei piccoli centri, ed anche nella nostra regione, il Molise, si sono verificati episodi di intolleranza che, pur se circoscritti e naturalmente criticati da gran parte dell’opinione pubblica, impongono un’attenta riflessione. Limitarsi ad una generica e non sempre convinta condanna verbale? E assumere lo stesso atteggiamento che si ha davanti ad una scena di “fiction”? No, la presa di posizione dovrebbe essere netta e consapevole. A cominciare dalle parole che vengono utilizzate.
Non sarà certamente sfuggito l’uso del termine skinhead [pronuncia: “schinhed”] per descrivere il giovane con la testa rasata e stivali anfibi ai piedi, protagonista di spedizioni punitive nei confronti soprattutto di extracomunitari. Con questa parola inglese ormai vengono indicati quei giovani che in gruppo si dedicano ad atti di teppismo o guerriglia urbana, che non nascondono simpatie neonaziste e xenofobe; tra gli skinhead si annoverano, infatti, i naziskin [pronuncia: “nazischin”]. Il vocabolo skinhead è composto da due sostantivi: “skin” che vuol dire “pelle”, e “head” che significa “testa”; il significato del termine è quindi “testa rasata”. La frangia dei naziskin richiama nella sua denominazione il legame con il partito nazionalsocialista di Hitler.
E’ interessante notare che il movimento degli skinhead non è di recente formazione, né ha avuto sempre una collocazione politica di estrema destra. Questo movimento è sorto, infatti, a seguito di rivendicazioni sociali negli anni sessanta in Gran Bretagna; accoglieva i giovani della classe operaia inglese, reclutati nelle periferie delle città, nei quartieri dormitorio in cui si ammassavano le famiglie del sottoproletariato insieme agli immigrati dalle Indie occidentali. I giovani proletari inglesi sentivano in prima persona il compito di rappresentare la propria classe sociale: lo skinhead si riconosceva pienamente nella classe sfruttata, sapeva di essere oggetto di critiche e disprezzo da parte dei borghesi e degli aristocratici, ricambiava il medesimo sentimento e non aspirava ad un cambiamento. Le aspettative dei giovani contestatori, dei “figli dei fiori”, non lo interessavano, anzi le combatteva. La sua figura incarnava lo sfruttamento della classe operaia: svolgeva per lo più lavori manuali, detestava i borghesi, non sopportava la polizia. Il suo aspetto e il suo modo di vestire erano legati al mestiere svolto: testa rasata e stivali anfibi fronteggiavano scarse condizioni igieniche e di sicurezza, costituivano precauzioni contro infortuni o infezioni.
Nei decenni successivi, anche grazie alle mutate condizioni di vita della classe operaia britannica, il movimento degli skinhead ha perso la sua connotazione di protesta sociale, si è frantumato in gruppi di tendenza o di moda, alcuni prevalentemente legati ai generi musicali contemporanei. Sul piano sociale è stato lasciato oggi campo libero alla frangia dei naziskin, che riemerge sulla scena facendo parlare di sé soprattutto per la violenza delle azioni, per l’aggressione dimostrata nei confronti di persone di nazionalità diversa, per le idee xenofobe che proclama e diffonde, non più soltanto in Gran Bretagna.
Dagli anni ottanta anche l’Italia accoglie queste tendenze. Viene da chiedersi se sia una moda “transitoria”. Facciamo attenzione: lo stile italico spesso rende definitivo ciò che inizialmente si presenta come transitorio! ☺
Parlare di gang [pronuncia: ghengh] rimanda ai film d’azione, soprattutto americani, con protagonisti, quasi sempre, un affascinante attore “holliwoodiano” e la sua non meno attraente partner (=collega), impegnati in “rocambolesche” avventure e destinati al consueto lieto fine: successo e vittoria per entrambi. Eppure gang e il sostantivo derivato gangster [pronuncia: ghengster] appartengono all’area semantica della criminalità: indicano, il primo, il gruppo di malviventi che si organizzano per effettuare le loro azioni “fuori legge”, il secondo, la persona componente la suddetta banda, il criminale appunto, conservando il sostantivo la stessa radice: gang!
Questi termini purtroppo non contemplano elementi positivi: ritraggono piuttosto gli aspetti peggiori della convivenza sociale, si traducono – nella realtà – in azioni illegali quando non in crimini; eppure assurgono a modelli conosciuti, “celebrati” e… sotto sotto apprezzati! Potenza dei mezzi di comunicazione di massa, che riescono a “trasfigurare” in un’ottica di “fiction” ciò che non ha nulla di meritevole!
La cronaca recente, e non solo, ha riproposto nel nostro paese il problema della convivenza di nazionalità diverse. Nelle grandi città, come nei piccoli centri, ed anche nella nostra regione, il Molise, si sono verificati episodi di intolleranza che, pur se circoscritti e naturalmente criticati da gran parte dell’opinione pubblica, impongono un’attenta riflessione. Limitarsi ad una generica e non sempre convinta condanna verbale? E assumere lo stesso atteggiamento che si ha davanti ad una scena di “fiction”? No, la presa di posizione dovrebbe essere netta e consapevole. A cominciare dalle parole che vengono utilizzate.
Non sarà certamente sfuggito l’uso del termine skinhead [pronuncia: “schinhed”] per descrivere il giovane con la testa rasata e stivali anfibi ai piedi, protagonista di spedizioni punitive nei confronti soprattutto di extracomunitari. Con questa parola inglese ormai vengono indicati quei giovani che in gruppo si dedicano ad atti di teppismo o guerriglia urbana, che non nascondono simpatie neonaziste e xenofobe; tra gli skinhead si annoverano, infatti, i naziskin [pronuncia: “nazischin”]. Il vocabolo skinhead è composto da due sostantivi: “skin” che vuol dire “pelle”, e “head” che significa “testa”; il significato del termine è quindi “testa rasata”. La frangia dei naziskin richiama nella sua denominazione il legame con il partito nazionalsocialista di Hitler.
E’ interessante notare che il movimento degli skinhead non è di recente formazione, né ha avuto sempre una collocazione politica di estrema destra. Questo movimento è sorto, infatti, a seguito di rivendicazioni sociali negli anni sessanta in Gran Bretagna; accoglieva i giovani della classe operaia inglese, reclutati nelle periferie delle città, nei quartieri dormitorio in cui si ammassavano le famiglie del sottoproletariato insieme agli immigrati dalle Indie occidentali. I giovani proletari inglesi sentivano in prima persona il compito di rappresentare la propria classe sociale: lo skinhead si riconosceva pienamente nella classe sfruttata, sapeva di essere oggetto di critiche e disprezzo da parte dei borghesi e degli aristocratici, ricambiava il medesimo sentimento e non aspirava ad un cambiamento. Le aspettative dei giovani contestatori, dei “figli dei fiori”, non lo interessavano, anzi le combatteva. La sua figura incarnava lo sfruttamento della classe operaia: svolgeva per lo più lavori manuali, detestava i borghesi, non sopportava la polizia. Il suo aspetto e il suo modo di vestire erano legati al mestiere svolto: testa rasata e stivali anfibi fronteggiavano scarse condizioni igieniche e di sicurezza, costituivano precauzioni contro infortuni o infezioni.
Nei decenni successivi, anche grazie alle mutate condizioni di vita della classe operaia britannica, il movimento degli skinhead ha perso la sua connotazione di protesta sociale, si è frantumato in gruppi di tendenza o di moda, alcuni prevalentemente legati ai generi musicali contemporanei. Sul piano sociale è stato lasciato oggi campo libero alla frangia dei naziskin, che riemerge sulla scena facendo parlare di sé soprattutto per la violenza delle azioni, per l’aggressione dimostrata nei confronti di persone di nazionalità diversa, per le idee xenofobe che proclama e diffonde, non più soltanto in Gran Bretagna.
Dagli anni ottanta anche l’Italia accoglie queste tendenze. Viene da chiedersi se sia una moda “transitoria”. Facciamo attenzione: lo stile italico spesso rende definitivo ciò che inizialmente si presenta come transitorio! ☺
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