
Tra accoglienza e spinte razziste
In un piccolo paese di circa 400 residenti arrivano 36 ragazzi migranti. Perché? Ci dicono che siamo in emergenza, ma un’emergenza è tale se all’improvviso succede qualcosa che dev’essere affrontato rapidamente. L’immigrazione, invece, non è più un fenomeno improvviso ma una quotidianità che necessita di una progettualità a medio e lungo termine: gli sbarchi che vediamo tutti i giorni in tv rappresentano una tappa per migliaia di persone che scappano da situazioni di guerra e povertà, attraversando il deserto e poi il Mediterraneo e rischiando la vita. Queste persone non possono essere fermate, come qualcuno propone, non si possono rigettare in mare, non serve alzare muri. L’accoglienza è un dovere, in primis di noi cittadini: decidere di non accogliere significa nascondere la polvere sotto il tappeto, significherebbe lasciare per strada centinaia di persone alimentando la spirale della povertà e dell’insicurezza sociale.
Tenendo ferme queste premesse è importante anche tenere a mente ciò che con l’inchiesta “Mafia Capitale” è venuto fuori: con le aste al ribasso le cooperative riducono al minimo i servizi e la qualità degli stessi, guadagnando “più che con la droga” (cit. Buzzi) e incidendo negativamente non solo sulla vita delle persone che vengono “ospitate” ma anche sui territori in cui queste strutture si collocano. Questa non è accoglienza, questo è un business in cui ci rimettiamo tutti, sia i migranti sia noi cittadini regolari: quando accogliamo qualcuno nella nostra casa non ci limitiamo a sfamarlo e a vestirlo ma interagiamo con lui, gli mostriamo la nostra città, gli spieghiamo come funzionano le cose da noi, non solo per gentilezza ma perché la dignità di una persona dipende anche dalla sua autonomia e indipendenza.
Io sono originaria di Ripabottoni, sono molto affezionata a quel borgo che mi ha visto crescere e nel quale ho attraversato tutte le fasi più importanti della mia vita. Proprio per questo motivo, sentire che alcuni cittadini hanno raccolto delle firme contro l’arrivo di questi ragazzi mi intristisce parecchio. Le chiacchiere da bar, l’unica agorà pubblica in un paese cosi piccolo, riempiono le bocche di quelli che utilizzano strumentalmente certe polemiche solo perché l’acqua questa volta non va al loro mulino ma a quello del competitor in affari.
Ma oltre gli invidiosi del guadagno altrui, c’è anche gente che legittimamente si chiede chi siano queste persone, perché sono qui, cosa succederà? Allora se in questo Paese i nostri governanti, le prefetture, le regioni e via dicendo decidessero di affrontare questo fenomeno una volta per tutte, si dovrebbe iniziare a prevenire l’impatto sui territori: gli abitanti vanno informati su cosa si decide di fare, andrebbero fatte iniziative pubbliche di approfondimento sul tema, si dovrebbe spiegare alla gente come funziona questo sistema. Soprattutto, una volta arrivati i ragazzi, si dovrebbero organizzare momenti di incontro con la comunità in modo da conoscersi reciprocamente, in modo da rompere stereotipi e pregiudizi, in modo da poter diventare tutti più ricchi culturalmente.
Tutto questo finora non è stato fatto, ma ciò non vuol dire che non c’è più niente da fare: chi abita il paese, di fronte a queste ingiustizie e a queste mancanze, ha l’occasione di dimostrare al “sistema” come l’integrazione si mette in pratica. Esistono esempi virtuosi in questo senso, piccole comunità che sono rinate proprio grazie all’arrivo di migranti, comunità che insieme a queste persone hanno ridato vita a borghi che sempre più vengono abbandonati dai giovani. I nemici degli onesti cittadini, di chi lavora tutti i giorni spaccandosi la schiena, di chi paga le tasse, di chi fa fatica ad arrivare a fine mese, di chi un lavoro non ce l’ha, hanno un colore della pelle a noi molto familiare. Sono bianchi come noi e sono quelli che decidono sulle nostre teste, non solo a livello nazionale ma anche a livello locale, impedendo agli abitanti di decidere sul proprio territorio, cavalcando sterili polemiche e guadagnando sulle spalle di chi ha già sofferto molto e cerca solo una vita tranquilla. E queste spalle affaticate non hanno un solo colore: sono bianche, nere, gialle.
Il razzismo striscia e si insinua nei vuoti, nelle lacune, negli spazi che noi come comunità non coltiviamo più. Mi rivolgo ai compaesani che leggeranno questo articolo: pretendere di sapere, di conoscere, di poter decidere è ciò che può avvicinarci a quei ragazzi che sono impotenti quanto noi di fronte ad un sistema che li risucchia in un vortice di burocrazia, vittimizzazione e rifiuto.
Abbiamo l’opportunità di dimostrare che sappiamo meglio di chi ci governa come si fa integrazione, aiutando queste persone a vivere una vita degna e alimentando circoli virtuosi utili anche alla rinascita del nostro paese.
Se guardiamo al nostro fianco con meno diffidenza, quei 36 ragazzi, sono già nostri alleati: ci possono insegnare molto rispetto a cosa vuol dire vivere in un mondo in cui i tuoi diritti non sono previsti, proprio mentre i nostri diritti ci vengono tolti giorno dopo giorno.☺