Tra vitalità e tristezza
29 Agosto 2017
laFonteTV (3191 articles)
Share

Tra vitalità e tristezza

Mai avrei pensato che il nome di Carducci potesse suonare un’istigazione a delinquere: sbagliavo.

Qualche tempo fa un’amica, spiritosa e in nulla retriva, di ritorno da un soggiorno in Toscana mi ha regalato una sporta di tela di un magnifico blu elettrico con su stampato in bianco un filare di cipressi sotto il quale sta la scritta, bianca anch’essa: “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar”. Firmato Giosué Carducci, ovviamente.

Mi piace questa mia borsa, perché è il dono di una persona cara, perché è di un colore vivido, perché è utile, perché la compagnia dei versi carducciani che la adornano mi allieta e mi conforta: li trovo freschi, melodiosi, senza pretese di verità altre e assolute, dunque autentici.

Bene. Quando mi sono permessa di far notare la chicca ad una collega – abitudine, questa, che peraltro mi è estranea e che mi è stata dettata proprio dalla mia “simpatia” per la sacca – sono stata investita da una raffica di ammonizioni, aspre quanto sorprendenti: che Carducci fu borghese piccolo quanto la classe sociale che rappresentava, che fu opportunista, che fu incapace di fare buona letteratura, id est letteratura di non meglio precisato “spessore”, che amarne o finanche citarne un verso significa essere passatisti, conservatori e fatui, perché fatuo sarebbe stato Carducci e vana la sua poesia. Quindi kaput.

In genere nei tête à tête non recedo, anzi mi infiammo ad oltranza; solo, con taluni portavoce dell’intellighenzia locale, quelli che se non c’è il lato post post-moderno, ontologicamente filosofico, ultra recondito dell’opera d’arte, l’arte per definizione non è, ecco con quelli mi arrendo in prima battuta: le mie armi sono spuntate e il duello non è pari, perché essi non dialogano, ma presumono che tu non sappia né capisca né abbia la sensibilità giusta e a forza di monologhi infarciti di metafisica vorrebbero persuadertene. Semplicemente, non ci sto.

Avrei potuto rispondere che, naturale, Carducci non è stato Leopardi, ma neanche Manzoni lo è stato: una china pericolosa, per la quale ho preferito non discendere, datosi che da un illustre emissario del Ministero della Pubblica Istruzione ho dovuto sentire, accorata, che Manzoni in fin della fiera poco o nulla è stato per la storia culturale italiana. Mi basta. Magari, però, avrei potuto ricordare alla mia collega che, stante la speciosa capacità di Carducci di forgiare repertori di valori patriottici e morali a bella posta per l’unità e l’identità della giovane nazione italiana, egli, riproponendo un’idea classica della poesia in tempi in cui l’afflato romantico e il simbolismo decadente la facevano da padroni, è stato doppiamente moderno, in quanto dapprima ha riproposto una funzione del poeta quale “artiere” della parola, cioè artigiano dotato di perizia tecnica – e di questa funzione laboriosa, credo, dovremmo essere meglio consapevoli a tutt’oggi -, in secondo luogo col suo “razionalismo” classicheggiante ha contribuito all’affermazione in Italia di una cultura laica e socialmente democratica. Poi, i temi del dolore, della malinconia, dell’identità labile dell’uomo, della fugacità della vita, dell’idillio del remoto e dell’infanzia, temi antichi come tanto moderno e futuribile moderno, trovano larga espressione in Carducci, in maniera talora angusta, provinciale se si vuole, ma essenzialmente vera.

Chi nel ritmo facile del settenario e nel dittico a contrasto tra le “rossastre nubi” e gli “stormi di uccelli neri” immortalati nel vespero a migrare “come esuli pensieri” non è pronto a riconoscere il suo intimo quotidiano altalenare tra vitalità e tristezza, tra pienezza e senso del nulla, tra gioia e paura?

O quanti padri e madri ingiustamente orfani dei loro figli non hanno sentito crudamente confitto nel loro cuore il ritmo inesorabile della doppia anafora di Pianto antico “sei nella terra fredda, sei nella terra negra; né il sol più ti rallegra, né ti risveglia amor”?

Infine, chi, sulla strada percorsa tante volte nell’ infanzia, in un suo elemento paesaggistico caratteristico non è incline a vedere commosso “i cipressi alti e schietti in duplice filar” che Carducci canta?

Alla mia collega avrei dovuto rispondere, ora mi è indubbio, che certo Carducci mi piace e non può non piacere, perché al ritmo melodico delle sue parole, all’equilibrio composto dei suoi versi si risvegliano tante nostre verità e sentimenti, e da essi emanano tanto amore per la poesia, tanta fatica sulla poesia. Il resto al vento.

Mi piace questo Carducci, avei dovuto rispondere, come mi piace Orazio, che Carducci tanto ha amato e tradotto e sempre tenuto ad esempio; Orazio che concepì la poesia come labor limae, che propose la medietas come paradigma di forma e contenuto, che, auspice dell’armonia composta, immortalò in cinque parole di straniante semplicità e in uno dei versi meglio riusciti della storia poetica mondiale l’estemporanea consunzione di ogni esperienza umana: “dum loquimur, fugerit invida aetas”. Mentre siamo qui a parlare, il tempo invidioso se ne sarà fuggito: perciò carpe diem.

A presto.☺

 

laFonteTV

laFonteTV