«Lavoro dignitoso: un mondo migliore inizia da qui» recita il logo del novantesimo anniversario della fondazione dell’ILO o in italiano OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), sorta nel 1919; il sottotitolo continua con l’affermazione significativa: “90 anni al servizio della giustizia sociale”.
L’ILO nasce al termine della prima guerra mondiale, all’interno del trattato di Versailles, insieme con la Società delle Nazioni. Mentre questa avrà vita asfittica, lacerata dai conflitti europei culminati nella tragedia della seconda guerra mondiale, l’ILO invece sopravvivrà agli eventi e sarà incorporata nell’ONU nel 1946 continuando ininterrottamente la propria opera fino ad oggi.
Tra le 44 nazioni fondatrici c’è l’Italia e quasi tutta l’Europa di allora, quasi tutto il Sud America, solo il Canada del nord America, due stati africani, la Liberia e il Sud Africa (il continente era ancora colonia del nord) e Cina, India, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Iran. Negli anni 20 si completa quasi la presenza degli Stati europei; e fino al 1960 con una media di 10 nazioni a decennio cresce la rappresentanza mondiale.
Nel 1934, dopo ben 15 anni, fanno il loro ingresso i due colossi politici del tempo: USA e Federazione Russa. Significativo lo scenario contestuale per alcune nazioni “fondatrici” che scateneranno la guerra: denunciano il trattato e ne escono una dopo l’altra, rientrandovi nel dopoguerra, la Germania, l’Austria occupata; l’Italia, il Giappone, la Spagna; la Romania occupata. La stessa sorte subiscono altri stati fondatori per l’istaurarsi di dittature e dell’apartheid: Guatemala, Honduras, Sud Africa. A dimostrazione perenne che sistemi politici e sistemi sociali camminano insieme ed interagiscono tra loro: le dittature guerriere non si confanno alle regole comunitarie condivise.
Il processo di de-colonizzazione vedrà l’ingresso di quasi tutti i paesi africani e di altre ex-colonie, con adesione – dal ‘60 all’80 – di sessanta nazioni. Il crollo del muro di Berlino (1989) consentirà, negli anni ‘90, l’ingresso dei paesi ex-comunisti, fino agli attuali 182 stati o nazioni, al giugno del 2008.
Il cammino dell’OIL è strutturato da “Dichiarazioni” che fissano i principi statutari e i principi fondamentali sul tema “lavoro”, da “Convenzioni” (ad oggi ben 183), in cui i principi si formalizzano in codificazione giuridica che gli stati sono chiamati a sottoscrivere e a trasferire nelle proprie legislazioni, in “Raccomandazioni” (ben 193) in cui si tracciano le “buone prassi” per il riconoscimento, la tutela e la promozione del lavoro e dei diritti ad esso connessi.
Scorrendo i titoli delle convenzioni, dai primi passi ad oggi, si avverte l’immane valore culturale da esse rappresentato per la visione del lavoro e per il processo di legislazione mondiale. Ne richiamiamo alcune prime: C1 Durata del lavoro (1919) – le famose 8 ore giornaliere e 40 settimanali – C2 Disoccupazione (1919), C3 Protezione della maternità (1919) alle ultime C181 Agenzie per l’impiego private (1997), C182 Le forme peggiori di lavoro minorile (1999), C183 Protezione della maternità (2000).
Le convenzioni fondamentali che hanno segnato svolte epocali sono, a detta della stessa ILO nel proprio sito web, in particolare: C29 sul lavoro forzato (1930), C87 sulla libertà sindacale e protezione del diritto sindacale, C98 sul diritto di organizzazione e di contrattazione collettiva (1949), C100 sulla parità di retribuzione (1951), C105 sull’abolizione del lavoro forzato (1957), C111 sulla discriminazione nell’impiego e nelle professioni (1958), C138 sull’età minima (1973), C182 sulle forme peggiori di lavoro minorile (1999).
La sede dell’ILO, causa la guerra, dal 1939 è a Ginevra. Nel 1959 viene aperto il primo ufficio dell’organizzazione in una nazione africana, nel 1969 l’ILO riceve il premio Nobel per la pace. Nel 1998, nel contesto di globalizzazione, l’ILO riformula la “Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro”; nel 1999 diviene Direttore Generale, e lo è ancora, Juan Somavia primo soggetto proveniente dal “Sud” del mondo a tale ruolo.
Per la spinta di questo direttore già dagli anni 2000, l’ILO rilancia il tema che diventa lo slogan del 90° «Lavoro dignitoso: un mondo migliore inizia da qui», mentre i governi sono affannati attorno alle parole commercio, finanza, deregulation, flessibilità, mercato e, nell’immediato, sono sommersi da richieste di stratosferici aiuti dalle corporation economiche e finanziarie, in barba ad ogni proclamata estraneità nei processi di sviluppo a “libero mercato”.
Un contesto terribile e un anniversario nel cataclisma delle economie odierne attanagliate dalla crisi finanziaria da cui non sappiamo ancora quando né come usciremo.
Ma proprio la proposta dell’ILO va al cuore del problema. Le culture “neo” (liberiste, capitaliste, colonialiste,) hanno “reificato”, di fatto, un nuovo diritto di cittadinanza che si aggiunge, anzi, supera e sostituisce nascostamente quello di sangue o di suolo. A breve non sarà più sufficiente essere nati in un luogo o avere lo stesso sangue di chi ci ha generato; per abitare “legittimamente” una terra bisognerà disporre ed esercitare un lavoro. Detto in altri termini brutali, bisognerà “servire” a qualcuno, a qualcosa, non a se stessi.
In questa visione “padronale” del diritto alla vita si inverte incredibilmente il rapporto tra cittadino e lavoro per cui il diritto al lavoro si trasforma in dovere del lavoro quale condizione indispensabile per possedere ed esercitare il diritto ad esistere. La persona è ridotta a “nuda vita”, ad esistenza senza titolarità previa e riconosciuta, perciò “nuda forza” da mettere a disposizione di chi sa far “girare il sistema”, senza, però, condizioni paritarie né partnership: unica condizione concessa è elemosinare il dono, non il diritto, di essere “inclusi” nel processo.
Come per ogni nuda forza, si ha diritto di usarla, consumarla, sostituirla, senza che nessun problema sia posto al sistema, che adopera, manipola, scarta. Si accorge dell’altro, lo “certifica”, lo “codifica” e riconosce l’esistenza di questo altro/forza solo per dichiararlo “problema”, “esubero”, o, peggio, “peso insostenibile” lo sviluppo del sistema. Si discute di “risorsa umana” ma solo in funzione del sistema, non altro.
Il dovere funzionale del lavoro diventa esclusivo criterio di cittadinanza mentre ne viene eroso il diritto vitale, poiché ridotto e coartato in tutte le forme, umiliato in precarizzazioni funzionali ai profitti. Questo è il messaggio che si proclama in modo duro e già sfacciatamente esplicito agli stranieri. Ma non illudiamoci: per questa antiumana visione economico-politico-sociale risultiamo tutti “stranieri” o “altro” che disturba. Possiamo, al massimo, desiderare di essere nuda forza a disposizione, senza anima, senza progetto, senza desideri, senza futuro; solo forza lavoro nel “mercato del lavoro” le cui redini sono nelle mani di coloro che, se i profitti tornassero ad essere tutelati e abbondanti, potrebbero far cadere le briciole per i cani affamati. Si continua a ripetere: occorre “consumare” per riavviare il sistema. Peccato che nel sistema tutto è solo mercato. La corsa verso il futuro, ci suggerisce l’ILO, ha altri blocchi di partenza e altre piste su cui correre: una vita degna sostenuta da un lavoro dignitoso, vissuto in una comunità solidale. ☺
«Lavoro dignitoso: un mondo migliore inizia da qui» recita il logo del novantesimo anniversario della fondazione dell’ILO o in italiano OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), sorta nel 1919; il sottotitolo continua con l’affermazione significativa: “90 anni al servizio della giustizia sociale”.
L’ILO nasce al termine della prima guerra mondiale, all’interno del trattato di Versailles, insieme con la Società delle Nazioni. Mentre questa avrà vita asfittica, lacerata dai conflitti europei culminati nella tragedia della seconda guerra mondiale, l’ILO invece sopravvivrà agli eventi e sarà incorporata nell’ONU nel 1946 continuando ininterrottamente la propria opera fino ad oggi.
Tra le 44 nazioni fondatrici c’è l’Italia e quasi tutta l’Europa di allora, quasi tutto il Sud America, solo il Canada del nord America, due stati africani, la Liberia e il Sud Africa (il continente era ancora colonia del nord) e Cina, India, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Iran. Negli anni 20 si completa quasi la presenza degli Stati europei; e fino al 1960 con una media di 10 nazioni a decennio cresce la rappresentanza mondiale.
Nel 1934, dopo ben 15 anni, fanno il loro ingresso i due colossi politici del tempo: USA e Federazione Russa. Significativo lo scenario contestuale per alcune nazioni “fondatrici” che scateneranno la guerra: denunciano il trattato e ne escono una dopo l’altra, rientrandovi nel dopoguerra, la Germania, l’Austria occupata; l’Italia, il Giappone, la Spagna; la Romania occupata. La stessa sorte subiscono altri stati fondatori per l’istaurarsi di dittature e dell’apartheid: Guatemala, Honduras, Sud Africa. A dimostrazione perenne che sistemi politici e sistemi sociali camminano insieme ed interagiscono tra loro: le dittature guerriere non si confanno alle regole comunitarie condivise.
Il processo di de-colonizzazione vedrà l’ingresso di quasi tutti i paesi africani e di altre ex-colonie, con adesione – dal ‘60 all’80 – di sessanta nazioni. Il crollo del muro di Berlino (1989) consentirà, negli anni ‘90, l’ingresso dei paesi ex-comunisti, fino agli attuali 182 stati o nazioni, al giugno del 2008.
Il cammino dell’OIL è strutturato da “Dichiarazioni” che fissano i principi statutari e i principi fondamentali sul tema “lavoro”, da “Convenzioni” (ad oggi ben 183), in cui i principi si formalizzano in codificazione giuridica che gli stati sono chiamati a sottoscrivere e a trasferire nelle proprie legislazioni, in “Raccomandazioni” (ben 193) in cui si tracciano le “buone prassi” per il riconoscimento, la tutela e la promozione del lavoro e dei diritti ad esso connessi.
Scorrendo i titoli delle convenzioni, dai primi passi ad oggi, si avverte l’immane valore culturale da esse rappresentato per la visione del lavoro e per il processo di legislazione mondiale. Ne richiamiamo alcune prime: C1 Durata del lavoro (1919) – le famose 8 ore giornaliere e 40 settimanali – C2 Disoccupazione (1919), C3 Protezione della maternità (1919) alle ultime C181 Agenzie per l’impiego private (1997), C182 Le forme peggiori di lavoro minorile (1999), C183 Protezione della maternità (2000).
Le convenzioni fondamentali che hanno segnato svolte epocali sono, a detta della stessa ILO nel proprio sito web, in particolare: C29 sul lavoro forzato (1930), C87 sulla libertà sindacale e protezione del diritto sindacale, C98 sul diritto di organizzazione e di contrattazione collettiva (1949), C100 sulla parità di retribuzione (1951), C105 sull’abolizione del lavoro forzato (1957), C111 sulla discriminazione nell’impiego e nelle professioni (1958), C138 sull’età minima (1973), C182 sulle forme peggiori di lavoro minorile (1999).
La sede dell’ILO, causa la guerra, dal 1939 è a Ginevra. Nel 1959 viene aperto il primo ufficio dell’organizzazione in una nazione africana, nel 1969 l’ILO riceve il premio Nobel per la pace. Nel 1998, nel contesto di globalizzazione, l’ILO riformula la “Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro”; nel 1999 diviene Direttore Generale, e lo è ancora, Juan Somavia primo soggetto proveniente dal “Sud” del mondo a tale ruolo.
Per la spinta di questo direttore già dagli anni 2000, l’ILO rilancia il tema che diventa lo slogan del 90° «Lavoro dignitoso: un mondo migliore inizia da qui», mentre i governi sono affannati attorno alle parole commercio, finanza, deregulation, flessibilità, mercato e, nell’immediato, sono sommersi da richieste di stratosferici aiuti dalle corporation economiche e finanziarie, in barba ad ogni proclamata estraneità nei processi di sviluppo a “libero mercato”.
Un contesto terribile e un anniversario nel cataclisma delle economie odierne attanagliate dalla crisi finanziaria da cui non sappiamo ancora quando né come usciremo.
Ma proprio la proposta dell’ILO va al cuore del problema. Le culture “neo” (liberiste, capitaliste, colonialiste,) hanno “reificato”, di fatto, un nuovo diritto di cittadinanza che si aggiunge, anzi, supera e sostituisce nascostamente quello di sangue o di suolo. A breve non sarà più sufficiente essere nati in un luogo o avere lo stesso sangue di chi ci ha generato; per abitare “legittimamente” una terra bisognerà disporre ed esercitare un lavoro. Detto in altri termini brutali, bisognerà “servire” a qualcuno, a qualcosa, non a se stessi.
In questa visione “padronale” del diritto alla vita si inverte incredibilmente il rapporto tra cittadino e lavoro per cui il diritto al lavoro si trasforma in dovere del lavoro quale condizione indispensabile per possedere ed esercitare il diritto ad esistere. La persona è ridotta a “nuda vita”, ad esistenza senza titolarità previa e riconosciuta, perciò “nuda forza” da mettere a disposizione di chi sa far “girare il sistema”, senza, però, condizioni paritarie né partnership: unica condizione concessa è elemosinare il dono, non il diritto, di essere “inclusi” nel processo.
Come per ogni nuda forza, si ha diritto di usarla, consumarla, sostituirla, senza che nessun problema sia posto al sistema, che adopera, manipola, scarta. Si accorge dell’altro, lo “certifica”, lo “codifica” e riconosce l’esistenza di questo altro/forza solo per dichiararlo “problema”, “esubero”, o, peggio, “peso insostenibile” lo sviluppo del sistema. Si discute di “risorsa umana” ma solo in funzione del sistema, non altro.
Il dovere funzionale del lavoro diventa esclusivo criterio di cittadinanza mentre ne viene eroso il diritto vitale, poiché ridotto e coartato in tutte le forme, umiliato in precarizzazioni funzionali ai profitti. Questo è il messaggio che si proclama in modo duro e già sfacciatamente esplicito agli stranieri. Ma non illudiamoci: per questa antiumana visione economico-politico-sociale risultiamo tutti “stranieri” o “altro” che disturba. Possiamo, al massimo, desiderare di essere nuda forza a disposizione, senza anima, senza progetto, senza desideri, senza futuro; solo forza lavoro nel “mercato del lavoro” le cui redini sono nelle mani di coloro che, se i profitti tornassero ad essere tutelati e abbondanti, potrebbero far cadere le briciole per i cani affamati. Si continua a ripetere: occorre “consumare” per riavviare il sistema. Peccato che nel sistema tutto è solo mercato. La corsa verso il futuro, ci suggerisce l’ILO, ha altri blocchi di partenza e altre piste su cui correre: una vita degna sostenuta da un lavoro dignitoso, vissuto in una comunità solidale. ☺
«Lavoro dignitoso: un mondo migliore inizia da qui» recita il logo del novantesimo anniversario della fondazione dell’ILO o in italiano OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), sorta nel 1919; il sottotitolo continua con l’affermazione significativa: “90 anni al servizio della giustizia sociale”.
L’ILO nasce al termine della prima guerra mondiale, all’interno del trattato di Versailles, insieme con la Società delle Nazioni. Mentre questa avrà vita asfittica, lacerata dai conflitti europei culminati nella tragedia della seconda guerra mondiale, l’ILO invece sopravvivrà agli eventi e sarà incorporata nell’ONU nel 1946 continuando ininterrottamente la propria opera fino ad oggi.
Tra le 44 nazioni fondatrici c’è l’Italia e quasi tutta l’Europa di allora, quasi tutto il Sud America, solo il Canada del nord America, due stati africani, la Liberia e il Sud Africa (il continente era ancora colonia del nord) e Cina, India, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Iran. Negli anni 20 si completa quasi la presenza degli Stati europei; e fino al 1960 con una media di 10 nazioni a decennio cresce la rappresentanza mondiale.
Nel 1934, dopo ben 15 anni, fanno il loro ingresso i due colossi politici del tempo: USA e Federazione Russa. Significativo lo scenario contestuale per alcune nazioni “fondatrici” che scateneranno la guerra: denunciano il trattato e ne escono una dopo l’altra, rientrandovi nel dopoguerra, la Germania, l’Austria occupata; l’Italia, il Giappone, la Spagna; la Romania occupata. La stessa sorte subiscono altri stati fondatori per l’istaurarsi di dittature e dell’apartheid: Guatemala, Honduras, Sud Africa. A dimostrazione perenne che sistemi politici e sistemi sociali camminano insieme ed interagiscono tra loro: le dittature guerriere non si confanno alle regole comunitarie condivise.
Il processo di de-colonizzazione vedrà l’ingresso di quasi tutti i paesi africani e di altre ex-colonie, con adesione – dal ‘60 all’80 – di sessanta nazioni. Il crollo del muro di Berlino (1989) consentirà, negli anni ‘90, l’ingresso dei paesi ex-comunisti, fino agli attuali 182 stati o nazioni, al giugno del 2008.
Il cammino dell’OIL è strutturato da “Dichiarazioni” che fissano i principi statutari e i principi fondamentali sul tema “lavoro”, da “Convenzioni” (ad oggi ben 183), in cui i principi si formalizzano in codificazione giuridica che gli stati sono chiamati a sottoscrivere e a trasferire nelle proprie legislazioni, in “Raccomandazioni” (ben 193) in cui si tracciano le “buone prassi” per il riconoscimento, la tutela e la promozione del lavoro e dei diritti ad esso connessi.
Scorrendo i titoli delle convenzioni, dai primi passi ad oggi, si avverte l’immane valore culturale da esse rappresentato per la visione del lavoro e per il processo di legislazione mondiale. Ne richiamiamo alcune prime: C1 Durata del lavoro (1919) – le famose 8 ore giornaliere e 40 settimanali – C2 Disoccupazione (1919), C3 Protezione della maternità (1919) alle ultime C181 Agenzie per l’impiego private (1997), C182 Le forme peggiori di lavoro minorile (1999), C183 Protezione della maternità (2000).
Le convenzioni fondamentali che hanno segnato svolte epocali sono, a detta della stessa ILO nel proprio sito web, in particolare: C29 sul lavoro forzato (1930), C87 sulla libertà sindacale e protezione del diritto sindacale, C98 sul diritto di organizzazione e di contrattazione collettiva (1949), C100 sulla parità di retribuzione (1951), C105 sull’abolizione del lavoro forzato (1957), C111 sulla discriminazione nell’impiego e nelle professioni (1958), C138 sull’età minima (1973), C182 sulle forme peggiori di lavoro minorile (1999).
La sede dell’ILO, causa la guerra, dal 1939 è a Ginevra. Nel 1959 viene aperto il primo ufficio dell’organizzazione in una nazione africana, nel 1969 l’ILO riceve il premio Nobel per la pace. Nel 1998, nel contesto di globalizzazione, l’ILO riformula la “Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro”; nel 1999 diviene Direttore Generale, e lo è ancora, Juan Somavia primo soggetto proveniente dal “Sud” del mondo a tale ruolo.
Per la spinta di questo direttore già dagli anni 2000, l’ILO rilancia il tema che diventa lo slogan del 90° «Lavoro dignitoso: un mondo migliore inizia da qui», mentre i governi sono affannati attorno alle parole commercio, finanza, deregulation, flessibilità, mercato e, nell’immediato, sono sommersi da richieste di stratosferici aiuti dalle corporation economiche e finanziarie, in barba ad ogni proclamata estraneità nei processi di sviluppo a “libero mercato”.
Un contesto terribile e un anniversario nel cataclisma delle economie odierne attanagliate dalla crisi finanziaria da cui non sappiamo ancora quando né come usciremo.
Ma proprio la proposta dell’ILO va al cuore del problema. Le culture “neo” (liberiste, capitaliste, colonialiste,) hanno “reificato”, di fatto, un nuovo diritto di cittadinanza che si aggiunge, anzi, supera e sostituisce nascostamente quello di sangue o di suolo. A breve non sarà più sufficiente essere nati in un luogo o avere lo stesso sangue di chi ci ha generato; per abitare “legittimamente” una terra bisognerà disporre ed esercitare un lavoro. Detto in altri termini brutali, bisognerà “servire” a qualcuno, a qualcosa, non a se stessi.
In questa visione “padronale” del diritto alla vita si inverte incredibilmente il rapporto tra cittadino e lavoro per cui il diritto al lavoro si trasforma in dovere del lavoro quale condizione indispensabile per possedere ed esercitare il diritto ad esistere. La persona è ridotta a “nuda vita”, ad esistenza senza titolarità previa e riconosciuta, perciò “nuda forza” da mettere a disposizione di chi sa far “girare il sistema”, senza, però, condizioni paritarie né partnership: unica condizione concessa è elemosinare il dono, non il diritto, di essere “inclusi” nel processo.
Come per ogni nuda forza, si ha diritto di usarla, consumarla, sostituirla, senza che nessun problema sia posto al sistema, che adopera, manipola, scarta. Si accorge dell’altro, lo “certifica”, lo “codifica” e riconosce l’esistenza di questo altro/forza solo per dichiararlo “problema”, “esubero”, o, peggio, “peso insostenibile” lo sviluppo del sistema. Si discute di “risorsa umana” ma solo in funzione del sistema, non altro.
Il dovere funzionale del lavoro diventa esclusivo criterio di cittadinanza mentre ne viene eroso il diritto vitale, poiché ridotto e coartato in tutte le forme, umiliato in precarizzazioni funzionali ai profitti. Questo è il messaggio che si proclama in modo duro e già sfacciatamente esplicito agli stranieri. Ma non illudiamoci: per questa antiumana visione economico-politico-sociale risultiamo tutti “stranieri” o “altro” che disturba. Possiamo, al massimo, desiderare di essere nuda forza a disposizione, senza anima, senza progetto, senza desideri, senza futuro; solo forza lavoro nel “mercato del lavoro” le cui redini sono nelle mani di coloro che, se i profitti tornassero ad essere tutelati e abbondanti, potrebbero far cadere le briciole per i cani affamati. Si continua a ripetere: occorre “consumare” per riavviare il sistema. Peccato che nel sistema tutto è solo mercato. La corsa verso il futuro, ci suggerisce l’ILO, ha altri blocchi di partenza e altre piste su cui correre: una vita degna sostenuta da un lavoro dignitoso, vissuto in una comunità solidale. ☺
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