Un nuovo vescovo a campobasso
8 Febbraio 2024
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Un nuovo vescovo a campobasso

Come già avvenne con la nomina di Bregantini nel lontano 2007, anche nell’occasione della nomina del successore, Biagio Colaianni, la fonte vuol riflettere su come avvengono certi processi nella chiesa. A quel tempo si era scomodato l’allora direttore di Avvenire, Boffo, per spiegare lo spostamento di un vescovo dalla Calabria al Molise per una volontà della diocesi stessa, quindi con un processo dal basso. A quel tempo (ed eravamo nel pieno dell’epoca di papa Benedetto) ci auguravamo che effettivamente questa spiegazione fosse il segno di un cambiamento di stile della chiesa, aperta cioè ad una maggiore “sinodalità”, parola oggi diventata corrente ma anche, forse, ridondante. Nei fatti, dopo 16 anni, ci siamo ritrovati nella totale oscurità e inconsapevolezza fino all’ultimo momento del nome del nuovo vescovo. E c’è da dire che, per chi non conosce i meccanismi di questi avvicendamenti, per prassi si chiede a un numero di fedeli (clero e laici) della diocesi di esprimere anche dei nomi. Nell’apprendere il nome del nuovo vescovo si è potuto constatare che si tratta di un sacerdote con un curriculum di tutto rispetto nell’ambito del proprio territorio diocesano e regionale (cioè, in Basilicata) ma, a differenza del precedente, non conosciuto nel Molise per cui difficilmente potrebbe essere stato indicato dai “fedeli” molisani. Paradossalmente si è spiegata la successione precedente, avvenuta in tempi di chiesa accusata di essere rivolta al passato, come un fatto sinodale, mentre nell’era della sinodalità celebrata, non si è avuta alcuna reale possibilità di un ascolto dal basso.
Il confronto tra i due fatti riguardanti la stessa diocesi, senza ovviamente entrare nel merito di valutazione delle persone, ci porta ad una considerazione di metodo, rafforzata anche da almeno un altro fatto che riguarda la chiesa in generale e cioè la questione delle benedizioni per persone che vivono situazioni “irregolari” in disaccordo con la morale ufficiale. La dichiarazione della Dottrina della fede è uscita in modo del tutto improvviso, causando a posteriori una reazione enorme da parte di molti episcopati ma la tempistica è significativa: poco tempo dopo la celebrazione di un sinodo che metteva al centro il tema della sinodalità stessa nella chiesa. Il problema, quindi, riguarda in generale l’uso delle parole a cui spesso, o per volontà o per consuetudine, non si accompagnano i fatti, come purtroppo avviene spesso nell’agone politico sia nazionale che mondiale: siamo infatti in un’epoca in cui si sta tragicamente inscenando ancora l’apologo greco-romano del lupo e dell’agnello dove il lupo che beve a monte del ruscello accusa l’agnello che beve a valle di inquinare l’acqua.
Il riferimento non casuale è a ciò che sta avvenendo tra Israele e Palestina. Meglio stendere un velo pietoso sulle pantomime politiche nostrane e prendere, come moderni apologhi di come funziona il mondo, i due fatti di cronaca dell’assurdo che riguardano la beneficenza fasulla dei pandori e i dipinti ritoccati, per capire che il mondo è il luogo in cui le parole e i fatti vivono in universi paralleli. Ma, tornando alla chiesa che si presenta e si rappresenta come la testimone della Verità che è Cristo, è lecito chiedersi perché fa a gara con il “mondo” nel tenere insieme una narrazione ultrariformista e una prassi che rimanda ai tempi in cui imponeva i suoi schemi alla società non solo con i discorsi ma anche, quando necessario, con la forza bruta. Per restare nella letteratura classica, sembra tanto che l’uso sconsiderato delle parole, distanti poi dai fatti reali, renda ancora tremendamente vera la frase di un capo barbaro sconfitto dai romani e riportata da Tacito: “Dove essi (cioè i romani) fanno il deserto lo chiamano pace”.☺

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