La globalizzazione è apparsa sempre come una sfida persa in partenza, dove la concorrenza estera minaccia di impoverire le economie locali. Si attribuiscono le cause ad un problema di efficienza produttiva che le economie nazionali, con le loro rigidità, stanno via via perdendo. A ben vedere, però, questo significa giocare la partita solo su aride competizioni di prezzo. Proprio quella “mano invisibile” che un tempo portava ad un virtuoso incontro tra produttori e consumatori, adesso, in un contesto internazionale più ampio, è diventata una mano che visibilmente contribuisce a dissipare la ricchezza delle nazioni e ad impoverire le economie locali.
Da un lato, le grandi aziende seguono fredde regole di delocalizzazione e di sfruttamento e traslocano oltre frontiera per migliorare comunque i propri margini di profitto. Da un altro lato, il consumatore si sente più libero di scegliere nel modo a lui più conveniente, in un mercato globale dove si confondono prodotti di tutte le specie e di tutte le provenienze.
Ancora oggi le analisi economiche, sulla falsariga del marginalismo di fine '800, continuano a seguire fredde regole razionali: per il produttore il massimo profitto subordinato al vincolo del mercato, per il consumatore la massima utilità con il vincolo del suo potere d’acquisto. Precisi modelli matematici hanno “replicato” il modo economico di decidere e tuttora, a distanza di un secolo, le scelte in genere, tanto per l’imprenditore che per la massaia, continuano ad essere guidate, esplicitamente o inconsciamente, dai medesimi schemi razionali.
Ma dobbiamo osservare che dal marginalismo ad oggi si è socializzato, tanto che gli stessi economisti hanno inquadrato l’individuo razionale in un contesto più ampio: il mercato, inteso come sintesi dell’incontro tra produttori e consumatori. Lo studio è passato quindi dal particolare al generale, dalla micro alla macroeconomia. E’ nel mercato che si esprimono tutte le “forze”, eterogenee e tumultuose, di tutti i diversi portatori di interessi da cui derivano le risultanze di un’economia.
Ma il mercato troppo spesso non coincide con la società perché non tutti coloro che appartengono a quest’ultima partecipano, direttamente o indirettamente, alla vita economica. Si è capito così che bisognava andare oltre il mercato perché l’uomo non è solo cliente o fornitore, produttore o consumatore. Ed è sulla scia di questo tentativo, ancora non del tutto riuscito, che ora si sente parlare del mercato come di un’entità dotata di sue facoltà cognitive ed emotive. Si parla di memoria, di sentimenti e di fiducia del mercato proprio a rivelare che dietro questa entità, apparentemente astratta, ci sono esseri umani con le loro sensazioni, le loro paure, i loro bisogni e le loro aspettative. E questi stessi esseri umani sono anche dietro le imprese e dietro le Istituzioni e, nel contempo, ognuno costituisce il mercato per qualcun’altro.
Per rafforzare la sensibilizzazione verso tematiche sociali si è puntato il dito sulle imprese per il ruolo essenziale e vitale che esse ricoprono, non solo per tutti i diretti interessati (azionisti, consumatori, lavoratori, fornitori) ma anche per la società ed il territorio di appartenenza. Ma la responsabilità sociale dell’impresa che si materializza nel bilancio sociale è marketing di facciata o consapevolezza che l’esasperazione del profitto porta nel tempo all’azzeramento del mercato?
Si pensa quindi ad una economia che si ricorda di essere scienza umanistica: dove l’uomo, finora spodestato dalle asettiche regole da lui stesso concepite, riconquista la sua centralità. Un’economia moderna ma civile dove lo scambio avviene, con giusto profitto e reciproco rispetto, tra produttore responsabile e consumatore critico. Un’economia sostenibile che non pensa solo all’oggi ma fa i conti anche con il domani. Un’economia mezzo e non fine perché messa al servizio dello sviluppo della società e del suo territorio. Un’economia locale che interagisce col mondo globale e che fa dell’unicità del proprio territorio il vantaggio competitivo per valorizzare le risorse locali. Un’economia di cooperazione e non solo di immediato massimo risultato.
Con la globalizzazione è iniziato un ciclo che, come ogni nuova invenzione, ha incominciato a mostrare anche i suoi limiti e i suoi risvolti negativi. Ed ora si avverte la necessità di uno spontaneo assestamento, di un momento di riflessione per l’uomo stesso che ha indotto l’intero processo. L’eccessiva dimensione diventa infatti disorientamento e spersonalizzazione. Proprio in questo deserto di valori, l’uomo economico sente forte il bisogno di riscoprire la sua identità di persona, la sua comunità ed il suo territorio. ☺
La globalizzazione è apparsa sempre come una sfida persa in partenza, dove la concorrenza estera minaccia di impoverire le economie locali. Si attribuiscono le cause ad un problema di efficienza produttiva che le economie nazionali, con le loro rigidità, stanno via via perdendo. A ben vedere, però, questo significa giocare la partita solo su aride competizioni di prezzo. Proprio quella “mano invisibile” che un tempo portava ad un virtuoso incontro tra produttori e consumatori, adesso, in un contesto internazionale più ampio, è diventata una mano che visibilmente contribuisce a dissipare la ricchezza delle nazioni e ad impoverire le economie locali.
Da un lato, le grandi aziende seguono fredde regole di delocalizzazione e di sfruttamento e traslocano oltre frontiera per migliorare comunque i propri margini di profitto. Da un altro lato, il consumatore si sente più libero di scegliere nel modo a lui più conveniente, in un mercato globale dove si confondono prodotti di tutte le specie e di tutte le provenienze.
Ancora oggi le analisi economiche, sulla falsariga del marginalismo di fine '800, continuano a seguire fredde regole razionali: per il produttore il massimo profitto subordinato al vincolo del mercato, per il consumatore la massima utilità con il vincolo del suo potere d’acquisto. Precisi modelli matematici hanno “replicato” il modo economico di decidere e tuttora, a distanza di un secolo, le scelte in genere, tanto per l’imprenditore che per la massaia, continuano ad essere guidate, esplicitamente o inconsciamente, dai medesimi schemi razionali.
Ma dobbiamo osservare che dal marginalismo ad oggi si è socializzato, tanto che gli stessi economisti hanno inquadrato l’individuo razionale in un contesto più ampio: il mercato, inteso come sintesi dell’incontro tra produttori e consumatori. Lo studio è passato quindi dal particolare al generale, dalla micro alla macroeconomia. E’ nel mercato che si esprimono tutte le “forze”, eterogenee e tumultuose, di tutti i diversi portatori di interessi da cui derivano le risultanze di un’economia.
Ma il mercato troppo spesso non coincide con la società perché non tutti coloro che appartengono a quest’ultima partecipano, direttamente o indirettamente, alla vita economica. Si è capito così che bisognava andare oltre il mercato perché l’uomo non è solo cliente o fornitore, produttore o consumatore. Ed è sulla scia di questo tentativo, ancora non del tutto riuscito, che ora si sente parlare del mercato come di un’entità dotata di sue facoltà cognitive ed emotive. Si parla di memoria, di sentimenti e di fiducia del mercato proprio a rivelare che dietro questa entità, apparentemente astratta, ci sono esseri umani con le loro sensazioni, le loro paure, i loro bisogni e le loro aspettative. E questi stessi esseri umani sono anche dietro le imprese e dietro le Istituzioni e, nel contempo, ognuno costituisce il mercato per qualcun’altro.
Per rafforzare la sensibilizzazione verso tematiche sociali si è puntato il dito sulle imprese per il ruolo essenziale e vitale che esse ricoprono, non solo per tutti i diretti interessati (azionisti, consumatori, lavoratori, fornitori) ma anche per la società ed il territorio di appartenenza. Ma la responsabilità sociale dell’impresa che si materializza nel bilancio sociale è marketing di facciata o consapevolezza che l’esasperazione del profitto porta nel tempo all’azzeramento del mercato?
Si pensa quindi ad una economia che si ricorda di essere scienza umanistica: dove l’uomo, finora spodestato dalle asettiche regole da lui stesso concepite, riconquista la sua centralità. Un’economia moderna ma civile dove lo scambio avviene, con giusto profitto e reciproco rispetto, tra produttore responsabile e consumatore critico. Un’economia sostenibile che non pensa solo all’oggi ma fa i conti anche con il domani. Un’economia mezzo e non fine perché messa al servizio dello sviluppo della società e del suo territorio. Un’economia locale che interagisce col mondo globale e che fa dell’unicità del proprio territorio il vantaggio competitivo per valorizzare le risorse locali. Un’economia di cooperazione e non solo di immediato massimo risultato.
Con la globalizzazione è iniziato un ciclo che, come ogni nuova invenzione, ha incominciato a mostrare anche i suoi limiti e i suoi risvolti negativi. Ed ora si avverte la necessità di uno spontaneo assestamento, di un momento di riflessione per l’uomo stesso che ha indotto l’intero processo. L’eccessiva dimensione diventa infatti disorientamento e spersonalizzazione. Proprio in questo deserto di valori, l’uomo economico sente forte il bisogno di riscoprire la sua identità di persona, la sua comunità ed il suo territorio. ☺
La globalizzazione è apparsa sempre come una sfida persa in partenza, dove la concorrenza estera minaccia di impoverire le economie locali. Si attribuiscono le cause ad un problema di efficienza produttiva che le economie nazionali, con le loro rigidità, stanno via via perdendo. A ben vedere, però, questo significa giocare la partita solo su aride competizioni di prezzo. Proprio quella “mano invisibile” che un tempo portava ad un virtuoso incontro tra produttori e consumatori, adesso, in un contesto internazionale più ampio, è diventata una mano che visibilmente contribuisce a dissipare la ricchezza delle nazioni e ad impoverire le economie locali.
Da un lato, le grandi aziende seguono fredde regole di delocalizzazione e di sfruttamento e traslocano oltre frontiera per migliorare comunque i propri margini di profitto. Da un altro lato, il consumatore si sente più libero di scegliere nel modo a lui più conveniente, in un mercato globale dove si confondono prodotti di tutte le specie e di tutte le provenienze.
Ancora oggi le analisi economiche, sulla falsariga del marginalismo di fine '800, continuano a seguire fredde regole razionali: per il produttore il massimo profitto subordinato al vincolo del mercato, per il consumatore la massima utilità con il vincolo del suo potere d’acquisto. Precisi modelli matematici hanno “replicato” il modo economico di decidere e tuttora, a distanza di un secolo, le scelte in genere, tanto per l’imprenditore che per la massaia, continuano ad essere guidate, esplicitamente o inconsciamente, dai medesimi schemi razionali.
Ma dobbiamo osservare che dal marginalismo ad oggi si è socializzato, tanto che gli stessi economisti hanno inquadrato l’individuo razionale in un contesto più ampio: il mercato, inteso come sintesi dell’incontro tra produttori e consumatori. Lo studio è passato quindi dal particolare al generale, dalla micro alla macroeconomia. E’ nel mercato che si esprimono tutte le “forze”, eterogenee e tumultuose, di tutti i diversi portatori di interessi da cui derivano le risultanze di un’economia.
Ma il mercato troppo spesso non coincide con la società perché non tutti coloro che appartengono a quest’ultima partecipano, direttamente o indirettamente, alla vita economica. Si è capito così che bisognava andare oltre il mercato perché l’uomo non è solo cliente o fornitore, produttore o consumatore. Ed è sulla scia di questo tentativo, ancora non del tutto riuscito, che ora si sente parlare del mercato come di un’entità dotata di sue facoltà cognitive ed emotive. Si parla di memoria, di sentimenti e di fiducia del mercato proprio a rivelare che dietro questa entità, apparentemente astratta, ci sono esseri umani con le loro sensazioni, le loro paure, i loro bisogni e le loro aspettative. E questi stessi esseri umani sono anche dietro le imprese e dietro le Istituzioni e, nel contempo, ognuno costituisce il mercato per qualcun’altro.
Per rafforzare la sensibilizzazione verso tematiche sociali si è puntato il dito sulle imprese per il ruolo essenziale e vitale che esse ricoprono, non solo per tutti i diretti interessati (azionisti, consumatori, lavoratori, fornitori) ma anche per la società ed il territorio di appartenenza. Ma la responsabilità sociale dell’impresa che si materializza nel bilancio sociale è marketing di facciata o consapevolezza che l’esasperazione del profitto porta nel tempo all’azzeramento del mercato?
Si pensa quindi ad una economia che si ricorda di essere scienza umanistica: dove l’uomo, finora spodestato dalle asettiche regole da lui stesso concepite, riconquista la sua centralità. Un’economia moderna ma civile dove lo scambio avviene, con giusto profitto e reciproco rispetto, tra produttore responsabile e consumatore critico. Un’economia sostenibile che non pensa solo all’oggi ma fa i conti anche con il domani. Un’economia mezzo e non fine perché messa al servizio dello sviluppo della società e del suo territorio. Un’economia locale che interagisce col mondo globale e che fa dell’unicità del proprio territorio il vantaggio competitivo per valorizzare le risorse locali. Un’economia di cooperazione e non solo di immediato massimo risultato.
Con la globalizzazione è iniziato un ciclo che, come ogni nuova invenzione, ha incominciato a mostrare anche i suoi limiti e i suoi risvolti negativi. Ed ora si avverte la necessità di uno spontaneo assestamento, di un momento di riflessione per l’uomo stesso che ha indotto l’intero processo. L’eccessiva dimensione diventa infatti disorientamento e spersonalizzazione. Proprio in questo deserto di valori, l’uomo economico sente forte il bisogno di riscoprire la sua identità di persona, la sua comunità ed il suo territorio. ☺
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