Può apparire strano che il nome di Medea sia, tra tutti gli dei e gli eroi dell’Olimpo, uno dei più conosciuti, giacché la sua storia è legata a spaventosi fatti di sangue, tra cui l’assassinio dei suoi due figli. Una madre che uccide i propri figli è un abisso senza paragoni ma … si ripete in tutte le epoche, compresa la nostra.
Dell’orrore che gli infanticidi ispirano sarebbe importante capire i motivi oscuri, difficili, complicati che spingono molte madri a negare la vita ai propri figli; le cause sono spesso sepolte in un pozzo di nevrosi, di solitudine, di dolore e richiedono, a chi decide di accostarvisi, un grande coraggio e una grande pietà.
Chi è dunque Medea? Perché mai la sua storia d’amore si conclude in tragica follia?
Innanzitutto Medea non è “donna greca”. Medea era originaria della lontana Colchide, un paese esotico, remoto, soprattutto nell’immaginario dei Greci. Era situato tra il Caucaso e l’attuale Mar Nero, un tempo chiamato significativamente Ponto Eusino, mare ospitale. Governava il paese il re Eeta, diletto figlio del sole; Medea era sua figlia. Nelle vene di questa donna scorre dunque sangue solare, divino; nel suo nome è scritta tutta la sua identità. Il verbo medomai, infatti, significa in greco “escogito, macchino, faccio artifici” e Medea si rivelerà ben presto indiscussa maestra di questi artifici.
Quando in Colchide arriva Giasone alla guida della spedizione degli Argonauti, partiti alla ricerca del mitico vello d’oro, Medea si innamora di lui, fugge dalla sua terra, rinnega le proprie tradizioni e lo assiste nella difficile impresa per accompagnarlo poi, attraverso tante peregrinazioni, sino in Grecia. Ma a Corinto le diverse nature dei due amanti si dividono: l’uomo greco si riappropria del suo privilegio maschile, la donna barbara sperimenta la propria “diversità”: da regina è ora straniera, senza più alcuna identità, senza cultura, senza sentimenti. Nata sotto il segno della straniera, Medea è ora in terra greca doppiamente straniera: perché è donna e perché è straniera; uno statuto intollerabile e impossibile da sostenere persino per un uomo che si diceva innamorato, come Giasone, e che addirittura le aveva dato due figli.
A Giasone che non si fa scrupolo di rinnegarla per scegliere Creusa, la figlia del re di Corinto, a Giasone che le rimprovera di essere barbara, selvaggia, maga, Medea rinfaccia però il tradimento dei patti e lo fa in una forma niente affatto irrazionale, basandosi su un principio fondamentale della civilissima Grecia. Chi dei due, dunque, è il più civile? Chi dei due il più selvaggio?
È davvero singolare che noi ricordiamo della storia di questa donna solo una parte. In realtà la vicenda di Medea coinvolge tutto l’essere stesso dell’Olimpo e degli dei, vale a dire la lotta tra il cuore e la mente. Il cuore nel suo traboccare diventa un organo pericoloso e i Greci lo sapevano benissimo, perciò all’amore preferivano lo stupro. L’unico tipo di relazione che gli dei greci stabilivano con gli uomini era di tipo violento.
Per gli uomini, invece, tutte le violenze, come tutte le dolcezze, vengono dal cuore. E il caso di Medea è proprio questo: Medea si innamora di Giasone, ma Giasone abbandona lei e i suoi due figli per un’altra donna. Solo allora, attraverso gli occhi dell’amore, attraverso gli occhi del cuore, ella vede rispecchiato nei figli l’abbandono. Medea è allora la donna che ha sperimentato l’amore e lo ha vissuto come “contagio”, come un virus capace di modificare il modo di percepire il mondo. Quando il “contagio” è finito, Medea si è ammalata.
Contrariamente a quanto avviene durante una malattia, laddove il virus ci fa ammalare e morire, il virus dell’amore ci fa vivere e quando è sconfitto e dovremmo guarire, ci accade invece di morire. Questo è quanto succede a Medea.
Il suo delitto, forse e paradossalmente, non è tanto quello di avere ucciso i suoi figli ma quello di non avere accettato la fine della sua malattia. Medea non accetta la fine dell’amore per Giasone, non accetta più l’idea della vita e si abbandona alla più irrazionale delle follie. Non sopporta che Giasone la lasci come una straniera in terra straniera; e per liberarsi di questo “contagio”, avverte di doversi liberare anche della vita, che i suoi figli rappresentano.
Così Christa Wolf immagina il suo ultimo lancinante delirio: “L’amore è stato fatto a pezzi, cessa anche il dolore; sono libera, senza desideri, ascolto il vuoto che mi colma. Cosa vanno dicendo? Che io, Medea, avrei ammazzato i miei figli? Che io, Medea, mi sarei voluta vendicare dell’infedele Giasone? Chi potrebbe mai crederci? – chiesi. Tutti. E così è andata a finire a questo modo. Fanno in modo che io possa essere chiamata infanticida anche presso i posteri”. ☺
annama.mastropietro@tiscali.it
Può apparire strano che il nome di Medea sia, tra tutti gli dei e gli eroi dell’Olimpo, uno dei più conosciuti, giacché la sua storia è legata a spaventosi fatti di sangue, tra cui l’assassinio dei suoi due figli. Una madre che uccide i propri figli è un abisso senza paragoni ma … si ripete in tutte le epoche, compresa la nostra.
Dell’orrore che gli infanticidi ispirano sarebbe importante capire i motivi oscuri, difficili, complicati che spingono molte madri a negare la vita ai propri figli; le cause sono spesso sepolte in un pozzo di nevrosi, di solitudine, di dolore e richiedono, a chi decide di accostarvisi, un grande coraggio e una grande pietà.
Chi è dunque Medea? Perché mai la sua storia d’amore si conclude in tragica follia?
Innanzitutto Medea non è “donna greca”. Medea era originaria della lontana Colchide, un paese esotico, remoto, soprattutto nell’immaginario dei Greci. Era situato tra il Caucaso e l’attuale Mar Nero, un tempo chiamato significativamente Ponto Eusino, mare ospitale. Governava il paese il re Eeta, diletto figlio del sole; Medea era sua figlia. Nelle vene di questa donna scorre dunque sangue solare, divino; nel suo nome è scritta tutta la sua identità. Il verbo medomai, infatti, significa in greco “escogito, macchino, faccio artifici” e Medea si rivelerà ben presto indiscussa maestra di questi artifici.
Quando in Colchide arriva Giasone alla guida della spedizione degli Argonauti, partiti alla ricerca del mitico vello d’oro, Medea si innamora di lui, fugge dalla sua terra, rinnega le proprie tradizioni e lo assiste nella difficile impresa per accompagnarlo poi, attraverso tante peregrinazioni, sino in Grecia. Ma a Corinto le diverse nature dei due amanti si dividono: l’uomo greco si riappropria del suo privilegio maschile, la donna barbara sperimenta la propria “diversità”: da regina è ora straniera, senza più alcuna identità, senza cultura, senza sentimenti. Nata sotto il segno della straniera, Medea è ora in terra greca doppiamente straniera: perché è donna e perché è straniera; uno statuto intollerabile e impossibile da sostenere persino per un uomo che si diceva innamorato, come Giasone, e che addirittura le aveva dato due figli.
A Giasone che non si fa scrupolo di rinnegarla per scegliere Creusa, la figlia del re di Corinto, a Giasone che le rimprovera di essere barbara, selvaggia, maga, Medea rinfaccia però il tradimento dei patti e lo fa in una forma niente affatto irrazionale, basandosi su un principio fondamentale della civilissima Grecia. Chi dei due, dunque, è il più civile? Chi dei due il più selvaggio?
È davvero singolare che noi ricordiamo della storia di questa donna solo una parte. In realtà la vicenda di Medea coinvolge tutto l’essere stesso dell’Olimpo e degli dei, vale a dire la lotta tra il cuore e la mente. Il cuore nel suo traboccare diventa un organo pericoloso e i Greci lo sapevano benissimo, perciò all’amore preferivano lo stupro. L’unico tipo di relazione che gli dei greci stabilivano con gli uomini era di tipo violento.
Per gli uomini, invece, tutte le violenze, come tutte le dolcezze, vengono dal cuore. E il caso di Medea è proprio questo: Medea si innamora di Giasone, ma Giasone abbandona lei e i suoi due figli per un’altra donna. Solo allora, attraverso gli occhi dell’amore, attraverso gli occhi del cuore, ella vede rispecchiato nei figli l’abbandono. Medea è allora la donna che ha sperimentato l’amore e lo ha vissuto come “contagio”, come un virus capace di modificare il modo di percepire il mondo. Quando il “contagio” è finito, Medea si è ammalata.
Contrariamente a quanto avviene durante una malattia, laddove il virus ci fa ammalare e morire, il virus dell’amore ci fa vivere e quando è sconfitto e dovremmo guarire, ci accade invece di morire. Questo è quanto succede a Medea.
Il suo delitto, forse e paradossalmente, non è tanto quello di avere ucciso i suoi figli ma quello di non avere accettato la fine della sua malattia. Medea non accetta la fine dell’amore per Giasone, non accetta più l’idea della vita e si abbandona alla più irrazionale delle follie. Non sopporta che Giasone la lasci come una straniera in terra straniera; e per liberarsi di questo “contagio”, avverte di doversi liberare anche della vita, che i suoi figli rappresentano.
Così Christa Wolf immagina il suo ultimo lancinante delirio: “L’amore è stato fatto a pezzi, cessa anche il dolore; sono libera, senza desideri, ascolto il vuoto che mi colma. Cosa vanno dicendo? Che io, Medea, avrei ammazzato i miei figli? Che io, Medea, mi sarei voluta vendicare dell’infedele Giasone? Chi potrebbe mai crederci? – chiesi. Tutti. E così è andata a finire a questo modo. Fanno in modo che io possa essere chiamata infanticida anche presso i posteri”. ☺
Può apparire strano che il nome di Medea sia, tra tutti gli dei e gli eroi dell’Olimpo, uno dei più conosciuti, giacché la sua storia è legata a spaventosi fatti di sangue, tra cui l’assassinio dei suoi due figli. Una madre che uccide i propri figli è un abisso senza paragoni ma … si ripete in tutte le epoche, compresa la nostra.
Dell’orrore che gli infanticidi ispirano sarebbe importante capire i motivi oscuri, difficili, complicati che spingono molte madri a negare la vita ai propri figli; le cause sono spesso sepolte in un pozzo di nevrosi, di solitudine, di dolore e richiedono, a chi decide di accostarvisi, un grande coraggio e una grande pietà.
Chi è dunque Medea? Perché mai la sua storia d’amore si conclude in tragica follia?
Innanzitutto Medea non è “donna greca”. Medea era originaria della lontana Colchide, un paese esotico, remoto, soprattutto nell’immaginario dei Greci. Era situato tra il Caucaso e l’attuale Mar Nero, un tempo chiamato significativamente Ponto Eusino, mare ospitale. Governava il paese il re Eeta, diletto figlio del sole; Medea era sua figlia. Nelle vene di questa donna scorre dunque sangue solare, divino; nel suo nome è scritta tutta la sua identità. Il verbo medomai, infatti, significa in greco “escogito, macchino, faccio artifici” e Medea si rivelerà ben presto indiscussa maestra di questi artifici.
Quando in Colchide arriva Giasone alla guida della spedizione degli Argonauti, partiti alla ricerca del mitico vello d’oro, Medea si innamora di lui, fugge dalla sua terra, rinnega le proprie tradizioni e lo assiste nella difficile impresa per accompagnarlo poi, attraverso tante peregrinazioni, sino in Grecia. Ma a Corinto le diverse nature dei due amanti si dividono: l’uomo greco si riappropria del suo privilegio maschile, la donna barbara sperimenta la propria “diversità”: da regina è ora straniera, senza più alcuna identità, senza cultura, senza sentimenti. Nata sotto il segno della straniera, Medea è ora in terra greca doppiamente straniera: perché è donna e perché è straniera; uno statuto intollerabile e impossibile da sostenere persino per un uomo che si diceva innamorato, come Giasone, e che addirittura le aveva dato due figli.
A Giasone che non si fa scrupolo di rinnegarla per scegliere Creusa, la figlia del re di Corinto, a Giasone che le rimprovera di essere barbara, selvaggia, maga, Medea rinfaccia però il tradimento dei patti e lo fa in una forma niente affatto irrazionale, basandosi su un principio fondamentale della civilissima Grecia. Chi dei due, dunque, è il più civile? Chi dei due il più selvaggio?
È davvero singolare che noi ricordiamo della storia di questa donna solo una parte. In realtà la vicenda di Medea coinvolge tutto l’essere stesso dell’Olimpo e degli dei, vale a dire la lotta tra il cuore e la mente. Il cuore nel suo traboccare diventa un organo pericoloso e i Greci lo sapevano benissimo, perciò all’amore preferivano lo stupro. L’unico tipo di relazione che gli dei greci stabilivano con gli uomini era di tipo violento.
Per gli uomini, invece, tutte le violenze, come tutte le dolcezze, vengono dal cuore. E il caso di Medea è proprio questo: Medea si innamora di Giasone, ma Giasone abbandona lei e i suoi due figli per un’altra donna. Solo allora, attraverso gli occhi dell’amore, attraverso gli occhi del cuore, ella vede rispecchiato nei figli l’abbandono. Medea è allora la donna che ha sperimentato l’amore e lo ha vissuto come “contagio”, come un virus capace di modificare il modo di percepire il mondo. Quando il “contagio” è finito, Medea si è ammalata.
Contrariamente a quanto avviene durante una malattia, laddove il virus ci fa ammalare e morire, il virus dell’amore ci fa vivere e quando è sconfitto e dovremmo guarire, ci accade invece di morire. Questo è quanto succede a Medea.
Il suo delitto, forse e paradossalmente, non è tanto quello di avere ucciso i suoi figli ma quello di non avere accettato la fine della sua malattia. Medea non accetta la fine dell’amore per Giasone, non accetta più l’idea della vita e si abbandona alla più irrazionale delle follie. Non sopporta che Giasone la lasci come una straniera in terra straniera; e per liberarsi di questo “contagio”, avverte di doversi liberare anche della vita, che i suoi figli rappresentano.
Così Christa Wolf immagina il suo ultimo lancinante delirio: “L’amore è stato fatto a pezzi, cessa anche il dolore; sono libera, senza desideri, ascolto il vuoto che mi colma. Cosa vanno dicendo? Che io, Medea, avrei ammazzato i miei figli? Che io, Medea, mi sarei voluta vendicare dell’infedele Giasone? Chi potrebbe mai crederci? – chiesi. Tutti. E così è andata a finire a questo modo. Fanno in modo che io possa essere chiamata infanticida anche presso i posteri”. ☺
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