Viandanti della resistenza
29 Marzo 2014 Share

Viandanti della resistenza

Vento. Soffia il vento. Anzi, fischia il vento. Fischia il vento e infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar a conquistare la rossa primavera, dove sorge il sol dell’avvenir.

Me la ripeto questa bella canzone della Resistenza italiana, purché tiri vento, non importa che sia la bora invernale o lo zefiro primaverile: per me è la canzone del vento, e della libertà.

Da che ero ragazzina mi avvince la Resistenza italiana, che ho vissuto prima come mito, poi come Storia “scientificamente” risaputa, senza che per tanto il fascino della leggenda ne venisse intaccato.

Il mito è intessuto di immagini, suoni, paesaggi, personaggi, finanche odori, alimentati dalla mia fantasia: sarà stata l’infanzia milanese o la maestra mantovana e libertaria; sarà stato il profilo noto delle Prealpi e della dorsale appenninica, così adatti alle ambientazioni di guerriglia; saranno state le letture, magari un po’ precoci, ma per ciò stesso incantate de L’Agnese va a morire, delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, de Il partigiano Johnny; sarà stato anche mio nonno paterno, uomo mite e costumato che, quando gli si chiedeva della guerra e dei fascisti, esordiva col suo archetipo “la storia è lunga” e lento pede, pur irretito dall’educazione contadina e sottacendo nomi ormai celeberrimi in paese quasi avesse paura che i morti potessero sentire e vendicarsi, finalmente parlava di angherie di ogni tipo e picchiatori in camicia nera.

Quindi, la Storia della Resistenza, quella studiata a scuola e imparata per tramite di insegnanti ora più ora meno appassionati, e quella che ho ripercorso da me, ormai adulta, quando la voglia di sapere non era diminuita dal timore di un voto o di un giudizio: l’armistizio dell’otto settembre, l’Italia di nuovo “nave senza nocchiero”, la guerra civile tra antifascisti e fascisti collaborazionisti dei nazisti, la Resistenza partigiana all’occupazione nazifascista e l’impegno unitario di appartenenti a molteplici e talora opposti orientamenti politici riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale, la conclusione della Resistenza fissata nella data-simbolo del 25 aprile del 1945, data dell’appello diramato dal CLN per l’insurrezione della città di Milano.

La Resistenza è equivalsa per l’Italia con la liberazione dal fascismo ed è bensì il fenomeno storico nel quale vanno individuate le origini stesse della Repubblica Italiana, tanto che l’Assemblea Costituente fu in massima parte composta da esponenti dei partiti che avevano dato vita al CLN, i quali scrissero la Costituzione fondandola sulla sintesi tra le rispettive tradizioni politiche ed ispirandola ai princìpi della democrazia e dell’antifascismo.

È una data importantissima, dunque, il 25 aprile, uno degli anniversari imprescindibili nel calendario della nazione italiana dalla storia quanto mai frammentaria e desultoria, è una data che cade nel bel mezzo della rinascita primaverile e – perché non?- sempre poco distante dalla Pasqua di Resurrezione: avremmo motivi in abbondanza per festeggiarla con gioia e colmare di fiori e profumi le are dei morti per la libertà e intonare canti e moltiplicare le fanfare che dei morti suonano la memoria. La memoria, che è monito, sempre.

Negli anni – magari è solo una mia impressione, ma è in tanto pur reale – la partecipazione corale degli Italiani alle celebrazioni della Resistenza e della Liberazione si è come sopita, mentre in sede storiografica avanzano di numero e di consistenza pericolosi esercizi di contorsionismo revisionista volti evidentemente a destituire di decoro e di nobiltà questa fase della storia patria, con ciò stesso rendendola istituzionalmente, giuridicamente, politicamente meno rilevante di quel che è stata ed è.

Mi vengono in mente le “foibe di Tito”, che in un crescendo latente ma esplosivo quanti ai possibili effetti sono divenute in corso di tempo “le foibe di Tito e dei comunisti italiani” e di seguito “le foibe di Tito e dei combattenti comunisti della Resistenza italiana”: si arriverebbe a volerci persuadere, vantando presunta documentazione storica ad hoc, che la Resistenza è stato terrorismo rosso patinato di buono. Non scenari marziani: già è accaduto in Cile, dove sui libri di storia destinati agli studenti delle scuole superiori l’orrore antisemita dei nazisti è stato ridotto ad una bega tra vicini di casa.

Non possiamo permetterlo, perché sappiamo bene che la violenza omicida, il genocidio sono colpevoli qualunque ne sia la fonte e che tra lager e foibe la sostanza non cambia, ma dobbiamo perciò stesso tenere alto il valore della Storia, che è patrimonio inalienabile dell’umanità, è eredità trasmessaci da avi, nonni e padri, affinché, non dimenticando, costruiamo in meglio il nostro cammino di uomini: nessuno ha il diritto di espropriarcene dolosamente, di sgretolarcela davanti agli occhi.

Un itinerario di consapevolezza nella storia della Resistenza lo offre anche il nostro piccolo Molise tra l’alta valle del Volturno e le Mainarde, paesaggi di una bellezza antica, quasi rude, dove nell’inverno e nella primavera del 1944 si fronteggiarono sulla linea Gustav gli alpenjäger  tedeschi e gli alpini italiani del nascente Corpo di Liberazione. Il battaglione alpino “Piemonte” conquistò con azione notturna il monte Marrone e resistette alla successiva reazione tedesca; l’azione militare, seppure di dimensioni modeste, ebbe un alto valore morale e rafforzò il ruolo della presenza italiana a fianco degli alleati, contribuendo alla definizione di un nuovo spirito d’identità tra i soldati. Una lapide a Scapoli, paesino ai piedi del  monte Marrone, conosciuto ai più per la tradizione delle zampogne, recita appunto che “il Raggruppamento, superata ogni attesa, raccoglieva il giusto premio degli eroi, guadagnando all’Italia il prestigio dei liberi e nuova vita all’esercito, che su questi sacri monti del Molise rinasceva sotto il nome glorioso di Corpo italiano di liberazione”. Oltre Scapoli e dopo aver superato il paese di Castelnuovo al Volturno in direzione del Monte Marrone si raggiunge un poggio che accoglie un’area monumentale dedicata al Corpo italiano di Liberazione: una struttura triangolare formata da grandi blocchi rettangolari di cemento su ciascuno dei quali è inciso il nome di una regione italiana, a ricordare la coesione dell’Italia antifascista intera, da nord a sud; ai piedi di tale piramide di cemento un’aquila di ferro che spezza delle massicce catene con gli artigli e con il becco, a significare la liberazione dalla costrizione del nazifascismo; di lato, poco discoste dalla piramide e dall’aquila, tre croci in ferro, chiaro riferimento al dolore causato agli Italiani dalle vicende di questa fase storica. Attraverso una strada sterrata, aggirando da sud il Monte Marrone, si entra a mezza costa in leggera salita nella Valle Viata; toccato il fondo della valle, si guada un torrente e si perviene ad una vasta radura con un vecchio stazzo ed un fontanile in disuso al cui fianco sorge un monumento eretto dai comuni di Scapoli e Rocchetta nel trentennale dalla Liberazione; il monumento ricorda i ventiquattro cittadini trucidati dai nazisti nella zona con un verso di Salvatore Quasimodo: “…Tu saluta, amico della libertà. Il loro sangue è ancora fresco”.

Ai viandanti della Resistenza una festa viva nel ricordo, presente nell’ esempio.☺

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