col nasino all’insù
24 Febbraio 2010 Share

col nasino all’insù

Oggi mi sono svegliata con la Luna. Né arrabbiata né irascibile: intendo che mi sono svegliata e c’era la Luna. L’avevo lasciata ieri notte in cima ad un tetto, fulgida come un acciar che non ha macchia alcuna, per dirla con Ariosto; e me la sono ritrovata al mattino, una sfera d’argento confusa nel celeste del giorno appena nato. Ridevo dentro all’idea di quella presenza discreta e ininterrotta, come di un’amica che hai sfinito di chiacchiere e confessioni al buio, e che tuttavia al mattino è ancora lì ad offrirti il suo volto gentile, il suo fare fidato.

Mi piace guardare la luna e la cerco, pure inconsapevole, tutte le sere: piena e ridente che si staglia nella volta nera del cielo, gobba a ponente che mi pare un po’ triste e stizzita, gobba a levante che mi sembra ammiccante, coronata di stelle o superbamente sola, soffusa di un lattiginoso manto o nitida di splendore, pensosa sulla devastante bellezza del grano in campagna, frizzante e birichina sui palazzi di città. Mi emoziona e mi riconforta sempre e mi pare di potermici di volta in volta specchiare nel suo aspetto: lei sta come sto io o – vai a capire – sarò io che sto come sta lei.

Guardi alla parola e già la senti amica e attraente, la Luna. Breve ma colma: scivola fluida la lingua sulla elle, quindi si posa sul palato annusando golosa con la enne, infine si aprono gaie le labbra sulla a; il tutto, dopo aver debitamente uggiolato nella u. E, sarà un caso, proprio quella u di desiderio c’entra in tante lingue con la parola luna: la si pronuncia nel moon inglese, nel francese lune, nello spagnolo luna, nel portoghese lua, nel russo луна (da leggersi, appunto, luna), nel cinese mandarino yuè: almeno la metà degli umani indica quella sfera prossima e misteriosa, sottomano e fuori portata, con una parola che contiene la vocale u, come se davanti all’essenza stessa del desiderio trasformata in oggetto fosse obbligo naturale di ululare.

Contemplazione estatica del bello e anelito o dialogo consolante o taciturno rispecchiarsi: questo hanno sempre cercato gli uomini nella Luna e la Luna sempre l’hanno cercata.

Quando penso alla Luna, quando la vedo, le immagini del mia bauletto di esperienze e formazione prima escono insieme confuse, come le foto riposte alla rinfusa che sbucano fuori appiccicaticce dall’apposita scatola, poi si sfogliano da sé e mi si servono ora l’una ora l’altra meglio definite a seconda delle occasioni.

Se sono pacata e in armonia me con me, mi si descrive netta in memoria la perfezione formale del plenilunio di Saffo – un frammento di poesia, in realtà, – chissà? – per sua e nostra fortuna -: Le stelle intorno alla luna bella/ nascondono di nuovo l’aspetto luminoso,/ quando essa, piena, di più risplende sulla terra.

Oppure, specie quando la Luna emana una chiarore abbagliante e io sono percorsa da un vena di romantico vagheggiamento di non so che, mi risuonano in mente le note della Sonata al chiaro di Luna, di Beethoven. Le fa concorrenza talora la dolcissima melodia di Mike Oldfied,  Moonlight Shadow: non mi sono mai curata di tradurne il testo in italiano, mi basta la compagnia di quel canto un po’ struggente, deliziosamente affannato nella sua guisa pop-folk irlandese.

Tra tutte le immagini e i ricordi legati alla Luna, però, primeggia la poesia di Leopardi.

Nei momenti in cui il senso di vuoto e – peggio – il senso del non senso spadroneggiano, mi sovviene l’incalzante interrogativo alla Luna con cui si apre il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai/ silenziosa luna?…

Stante l’insondabile, desolante mistero di un universo certo non confezionato per la felicità umana, Leopardi scopre nella Luna una sorta di riferimento, lei detentrice di un sapere che agli uomini sfugge: Pur tu solinga, eterna peregrina,/ che sì pensosa sei, tu forse intendi,/ questo viver terreno,/ il patir nostro, il sospirar che sia…Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore/ rida la primavera,/ a chi giovi l’ardore/ e che procacci il verno co’ suoi ghiacci./ Mille cose sai tu, mille discopri,/ che son celate al semplice pastore.

C’è anche un grido da periferia urbana anni Ottanta, molto poco filosofico e molto molto grunch che di tanto in tanto – non esito ad ammetterlo – mi accompagna nelle mie invocazioni alla Luna, quando il raziocinio meditabondo vuole lasciar posto ad una più facile foga popolare. È quello di Gianni Togni, ancora lo ricordo jeans stracciato e giacca, capelli biondo ocra appena fino al collo, i pugni chiusi: Luna non dirmi che a quest’ora tu già devi scappare in fondo è presto l’alba ancora si deve svegliare, bussiamo insieme ad ogni porta, sembrerà sciocco cosa importa, Luna…

Io la scopro e la riscopro la meraviglia della luna e quando mi scopro a riscoprirla, eccomi  Ciaula, il minatore di Pirandello che, emergendo dal ventre della terra, è sbandato dalla chiaria della Luna: Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio gli stava di faccia la Luna…la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

Nella Luna insomma ci metto dentro tutto, e lo hanno fatto tanti uomini, da tempo immemorabile. Un gran calderone di consolazione e passioni, ambizioni e delusioni, amori accecanti, promesse di palingenesi esistenziale: si capisce che Ariosto col suo sguardo brioso ed ironico, quando è che nel XXXIV canto dell’Orlando furioso racconta del viaggio di Astolfo e San Giovanni sulla Luna, evidenzia la meraviglia di Astolfo nel constatare che quel paese appresso era sì grande,/ il quale a un picciol tondo rassomiglia/ a noi che lo miriam da queste bande. Ma poi, a pensarci bene, per forza deve essere un gran bello spazio se ciò che si perde o per nostro difetto,/ o per colpa di tempo o  di Fortuna:/ ciò che si perde qui, là si raguna. Là, sulla Luna.

Quest’anno si è festeggiato l’anniversario dell’allunaggio. Dovremmo ricordarcene – a me pare – quando i nostri piedi li incolliamo a terra con tanta forza e ostinazione da dover chinare anche il capo, senza riuscire più a levare lo sguardo al cielo; anzi, dovremmo imporci di osservare la Luna e le stelle, se mai ci risultasse faticoso, perché non potremmo avere godimento più puro e più pieno di quello che, slegato da ogni possesso materiale, risiede nella libertà della contemplazione, nella proiezione nell’infinito spazio del cielo, nel crepitio delle stelle, nel bagliore sinuoso della Luna, di tutto quello che mai qui avrebbe sostanza e concretezza.

Gianni Rodari ha scritto per la Luna una filastrocca che è solo in apparenza una cantilena fanciullesca, ma che a noi adulti male non farebbe rileggere ogni tanto; guai – dice Rodari – a mandare un banchiere sul satellite d’argento – la Luna, appunto -, a rischio che lo metta in cassaforte e lo mostri a pagamento, poi continua: Ha da essere un poeta/ sulla Luna ad allunare:/ con la testa nella Luna/ lui da un pezzo ci sa stare…/ A sognare i più bei sogni/ è da un pezzo abituato: sa sperare l’impossibile/ anche quando è disperato/ Or che i sogni e le speranze/ si fan veri come fiori/ sulla Luna e sulla Terra fate largo ai sognatori.

A presto. ☺

LucianaZingaro@libero.it

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