Il neocapitalismo
17 Gennaio 2018
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Il neocapitalismo

Nel contributo di dicembre appena trascorso ci chiedevamo quali siano state le ragioni che hanno determinato in questi ultimi decenni lo sconquasso etico/culturale/civile/politico della nostra società; quali le cause che hanno determinato l’assenza di partecipazione civile responsabile alla polis di più della metà della popolazione italiana, avente diritto al voto; quali i motivi della riduzione a schiavo del lavoratore dipendente, vittima immolata al profitto a tutti i costi; quali le giustificazioni dell’odio intollerante e razzista verso i ceti molto poveri e gli immigrati che ne rappresentano una alta percentuale. Noi siamo profondamente convinti che tutto dipenda dal neocapitalismo, finanziario soprattutto, vorace, distruttore delle democrazie, delle lotte antifasciste, e delle coscienze dei cittadini. Da una parte, i ricchi autosufficienti e classisticamente, diremmo meglio razzisticamente egoisti; da un’altra, i deboli, i poveri, gli ultimi, i reietti della società. Stiamo ormai praticamente nelle condizioni narrate nel film del regista coreano Bong Joon Ho, Snowpiercer – Anno 2031. Chi conquista il treno, controlla il mondo -, salvo a verificare se oggi ci potrà essere una nuova rivoluzione… Partendo, dunque, da questi presupposti, proponiamo in estrema sintesi alcune riflessioni di scrittori, economisti, storici, sul ruolo del neocapitalismo finanziario, che prende il nome di new new economy, meglio conosciuta come Scuola di Chicago, che in Friedman ha il suo mentore.

Pier Paolo Pasolini, fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, anticipando la notizia dell’abbozzo di un suo nuovo romanzo Il Rio della Grana, parla dell’avvento di un “neocapitalismo” conformistico, oppressivo, corruttore e distruttore del mondo sottoproletario. Gian Carlo Ferretti, curatore de I dialoghi di P.P.P., ricorda che sulla rivista “Vie Nuove” del 16 novembre 1961, lo scrittore di Casarsa della Delizia, esprime un duro ma corretto giudizio sul neocapitalismo: “La sirena neocapitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto che ne consegue. Quando l’azione politica si attenua, o si fa incerta, allora si prova o la voglia dell’evasione, del sogno – “Africa, unica mia alternativa”-, o un’insorgenza morale (…)” (P.P. Pasolini, I dialoghi, prefazione di G.C. Ferretti, Editori Riuniti, Roma, ottobre 1992, Prefazione XXII-XXIII).

E in Poesia in forma di rosa Pasolini è ancora più esplicito nel condannare il neocapitalismo, che al suo naturale Dna, quello del massimo profitto a danno dell’uomo ridotto a schiavo, dunque privato di ogni garanzia sindacale, aggiunge un altro obiettivo (che noi oggi verifichiamo con angosciosa rabbia!), quello della distruzione delle culture subalterne, del saccheggio del senso religioso e laico insieme delle tradizioni popolari e di qui della dolorosa necessità di abbandonare le proprie terre: “Alì dagli occhi azzurri/ (…) / scenderà da Algeri, su navi/ a vela e a remi. Saranno/ con lui migliaia di uomini/ coi corpicini e gli occhi/ di poveri cani di padri/ (…) Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,/ a milioni, vestiti di stracci/ e di camice americane./ Subito i Calabresi diranno,/ (…)/- Ecco i vecchi fratelli,/ coi figli e il pane e formaggio -/ Da Crotone o Palmi saliranno/ a Napoli, e da lì a Barcellona,/ a Salonicco e a Marsiglia, nelle città della Malavita./ Anime e angeli, topi e pidocchi,/ col germe della Storia Antica,/ voleranno davanti alle willaye” (P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa, I Grandi Libri Garzanti, Mi, 1976, in IV – Il libro delle croci -, Profezia, pag.97).

Un altro motivo di preoccupazione profonda è la politica economico/finanziaria della Ue, che con l’euro controlla le economie dei singoli Paesi, minandone alla base l’ autonomia e discreditandone le tradizioni democratiche, nonché le acquisizioni social/sindacali degli anni passati. Tali conquiste sociali, tutorie del lavoro e dei rapporti democratici tra le forze politiche al governo e i sindacati, sono state smantellate su indicazioni inappellabili di banche private come la J.P.Morgan, o di organismi non eletti da alcun Paese della Ue, come la Bce, il Fmi, perché antagonistiche alla filosofia della new new economy, che fonda il suo credo sul massimo profitto a danno del lavoro, che è stato schiavizzato, e sullo smantellamento dello stato sociale nei paesi dove esso continua a funzionare. Di qui, la spaccatura inimmaginabile fino a qualche decennio fa fra pochi ricchi che detengono una ricchezza spropositata e tutte le altre fasce sociali che o sono cadute nell’estrema povertà o ci stanno scivolando pericolosamente. Dunque, appare convincente la riflessione autocritica da parte di alcuni economisti di scuola keynesiana, i quali ritengono la politica monetaria della UE come responsabile della crisi (depressiva/recessiva) economica/sociale e democratica dei paesi capitalistici e del Nord del Mondo. Joseph E. Stiglitz è uno di questi: “Non è necessario crocifiggere l’Europa sulla croce dell’euro: la moneta unica può funzionare. Le riforme essenziali che l’Ue deve introdurre riguardano la struttura dell’unione monetaria in quanto tale, non le economie dei singoli paesi. Resta da vedere se vi siano sufficienti coesione politica e solidarietà per poter adottare queste riforme, in assenza delle quali un divorzio consensuale sarebbe di gran lunga da preferire al pasticcio attuale; indicherò una via per gestire al meglio la separazione” (Joseph E. Stiglitz, L’euro – come una moneta unica minaccia il futuro dell’Europa, Edizioni Einaudi, To, 2017, prefazione, pag, VIII). Un’ultima amara testimonianza ci viene da uno storico del territorio e dell’agricoltura italiana, noto per le sue continue e feconde pubblicazioni; parliamo di Piero Bevilacqua: “Da questa vecchia e nuova via del processo di valorizzazione del capitale nasce quella forma d’impresa che prende il nome ampolloso di grandi opere. (…) Ad essere colpito, infatti, non è solo l’incolto, la terra fertile, ma anche i relitti superstiti del paesaggio agrario. Sotto il diluvio di nuovi tracciati stradali, vie complanari, autostrade (…) viene talora sommersa la campagna (…) Senza dire che (…) asfalto e cemento, anche quando si abbattono su aree incolte e di poco pregio paesaggistico, sconvolgono invisibili equilibri ambientali, corridoi vitali per tanti animali, frammenti di ecosistemi brulicanti di vita che erano sfuggiti a precedenti distruzioni. Infine, aspetto non trascurabile (…) la cementificazione si concentra lungo la linea costiera della Penisola. (…) In parallelo alla delocalizzazione produttiva che disintegra le filiere ed allontana la produzione dal territorio, il principio della deregulation neoliberista enfatizzato in economia si riflette in una disseminazione insediativa insensata, disordinata, priva di razionalità e piano e in un consumo del suolo insensato”. (Piero Bevilacqua, Felicità d’Italia – paesaggio, arte, musica, cibo -, Edizioni Laterza, Ba-Roma, 2017, cap. III, pp. 109-111). ☺

 

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