Incontro all’altro
31 Marzo 2015 Share

Incontro all’altro

Il tema della fraternità attraversa tutto il Nuovo Testamento, ma se dobbiamo scegliere un libro tra tutti, questo è il Vangelo di Matteo, che mette bene a fuoco questa categoria. Come già in Paolo, anche in Matteo il termine fratello definisce l’appartenente alla comunità ed è sempre Gesù che parla di fratelli, quando indica, appunto, gli appartenenti alla sua comunità/chiesa. Le parole di Gesù sulla fraternità riguardano o l’identità del discepolo rispetto a lui e a Dio, oppure la gestione delle situazioni di crisi nella relazione tra i membri della comunità. Il criterio fondamentale per essere fratelli è il legame con Gesù e l’agire secondo la volontà di Dio: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (12,50). La condizione di fratello/sorella crea uguaglianza tra i membri della comunità, che non è fondata sulle gerarchie, ma sulla comune relazione con Dio e con Gesù: “Non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo” (23,8-9). È su questo che si fonda la necessità di mantenere viva la relazione con l’altro, anche quando sbaglia: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (5,23-24). La relazione da ricostruire con il fratello è così importante, infatti, che precede persino il rapporto con Dio. L’immagine dell’interruzione dell’offerta per la necessità di andare incontro al fratello che sbaglia si spiega molto bene con quanto Gesù insegna sulla comunità, nel cuore del vangelo, in Mt 18. Nel lasciare l’altare il discepolo assume la forma del Padre/pastore che si mette in cerca della pecora smarrita (18,12-14), che è il membro debole della comunità proprio perché sbaglia.

La riconciliazione con il fratello non può essere solo un atto formale, ma richiede una strategia, il coinvolgimento della comunità che è corresponsabile della riconciliazione: “Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano” (18,15-17). Purtroppo questa regola data da Gesù per fare tutto il possibile per salvare la relazione con l’altro, ha avuto ben altro esito nella storia cristiana, essendo diventata uno dei testi fondamentali per istituire la scomunica, in tutte le sue forme. Il vangelo va esattamente nella direzione opposta, in quanto esorta a non interrompere alla leggera la relazione con l’altro che è fratello non perché lo voglio io, ma perché è costituito tale dalla volontà di Gesù. Il trattare l’altro come un pagano e un pubblicano non significa infatti disprezzarlo o escluderlo dalla relazione con sé ma circondarlo di ancora più attenzione, esattamente come Gesù che ha privilegiato il suo rapporto con i peccatori. Come a dire: se non puoi trattare l’altro alla pari, come dovrebbe essere nella comunità voluta da Gesù, devi trattarlo come un tuo “superiore”, uno a cui devi prestare un servizio più grande. E questo va fatto non una sola volta, ma sempre: “Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (18,21-22), che in linguaggio biblico significa infinitamente. La questione non è se umanamente ciò sia possibile, ma che evangelicamente sia necessario per chi voglia sbandierare il fatto di essere cristiano.

Troppo spesso ci si arroga l’appartenenza alla chiesa brandendo le armi della scomunica e del giudizio verso chiunque non riteniamo perfetto secondo i nostri canoni; il vangelo dice esattamente il contrario: l’appartenenza alla comunità cristiana è misurata sulla capacità che ho di andare incontro all’altro nonostante tutto, anche quando l’altro dovesse arrivare a togliermi il saluto, i beni e la vita stessa. Anzi, in questa prospettiva i veri fratelli di Gesù sono le vittime della storia che, nella misura in cui vengono assistite e servite, diventano il nostro lasciapassare per il regno di Dio: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (25,40). Si può essere fratelli di Gesù in due modi soltanto: o quando si è vittima della violenza umana e dell’ ingiustizia (le beatitudini, presentate da Matteo all’inizio della predicazione di Gesù, in 5,3-12, insegnano) o quando ci si sente così legati a lui da non poter fare a meno di trattare gli altri come ha fatto lui, cioè dando la vita.☺

 

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