L’8 sempre
1 Aprile 2014 Share

L’8 sempre

Ma l’8 marzo è già passato, mi dicono, perché scrivere un articolo adesso? Non ne volevo parlare, infatti, non volevo scrivere delle consuete battute tramite sms, internet ecc. (la più carina una donna fiaccata dalla quotidiana follia che scrive “io m’arzo tutto l’anno”!). Non volevo nemmeno porre l’accento che quest’anno sono andati molto i centri benessere, i massaggi, le creme, per quel giorno, con il 70% di sconto.

Non volevo scrivere che l’8 marzo che sogno non recupera quote rosa, ma traccia un futuro dove per tutto l’anno, per sempre e non perché siamo donne, dovrebbero essere fatti progetti che riguardano le generazioni che verranno, perché concentrarsi solo sull’oggi è una forma di egoismo e miopia inutile. Ci si è spaccati in parlamento, ci si spacca sulla parità di genere nella legge elettorale: e non deve sorprendere, perché la diversità di opinioni ci arricchisce.

Non volevo parlare dell’8 marzo ma della vita e della cultura che si dovrà innescare per/con le nuove generazioni e ce lo fanno ricordare infinite problematiche irrisolte, in ogni ambito: perché, come detto altre volte, quando si analizzano le disuguaglianze che riguardano le donne e quando si combatte per dissolverle, s’intende lavorare per appianare tutte le disuguaglianze sociali (e, sì, di classe).

Molti anni fa, mi pare nell’ ottantacinque come Teatro del Guerriero proiettammo a Bologna al  cinema Lumiere un documentario di una regista indiana. Il titolo era “dono d’amore” e parlava dell’usanza diffusissima di uxoricidi in una regione dell’India da parte di mariti che non riscuotevano in tempo la dote dalla moglie e quindi la bruciavano (il gas liquido di uso domestico facilitava l’operazione e l’aiuto delle madri dei mariti era al 90% utile). Metà documentario che vidi per la prima volta a Parigi nell’83 teneva con il fiato sospeso: un viso in ospedale, mezza maschera mezzo sangue di una donna sopravvissuta e dalla sua testimonianza – voce bruciata e che veniva dal profondo.

Tutte dicemmo che era una brutalità che poteva avvenire solo in società profondamente patriarcale. Oggi in Italia, in Europa si uccide per molto meno una moglie, una compagna, si uccide non perché non ha portato in dote il frigorifero o la macchina ma perché è lei come il frigorifero e la rabbia attuale si scaglia su di lei oggetto che viene a mancare, indecente, ingombrante, troppo usato, poco usato, distratto, difficile incomprensibile e quindi da eliminare.

Quest’anno dall’India  è arrivato un altro film, un documentario sulle donne in sari rosa, in omaggio alla fondatrice del gruppo,Sampat Pal.

La “gang in rosa”, in hindi gulabi, è nata nel cuore rurale e patriarcale dell’India, in un piccolo distretto dell’Uttar Pradesh. Le donne arruolate nell’esercito di combattenti per l’uguaglianza sociale e la parità dei diritti vestono una brillante uniforme rosa-shocking e padroneggiano l’arte del bastone per castigare gli abusi e le oppressioni, che troppo spesso investono il sesso debole nell’India delle doti e del matrimonio infantile.

“La nostra non è una gang come la si intende di solito: è una gang per la giustizia”, spiega Sampat Pal, fondatrice del movimento e capitano delle truppe in sari rosa. Sposata all’età di 9 anni, Sampat Pal ha gli occhi azzurri e il volto duro, ha vissuto sulla propria pelle le violenze riservate alle figlie femmine. I suoi genitori non pensavano valesse la pena mandarla a scuola. A dodici anni è stata spedita a vivere nella famiglia allargata del marito, un venditore ambulante di gelati. A 13 anni ha avuto il primo dei suoi cinque figli. Sampat Pal ha sopperito al senso di impotenza ed emarginazione allenandosi all’uso del bastone (in hindi laathi), pratica che insegnò alle sue sorelle e che tuttora diffonde con corsi di autodifesa rivolti alle donne di villaggio. Migliaia di donne cominciarono ad aderire al piccolo esercito in rosa: oggi sono circa 20 mila, con sedi sparse per tutto il Nord dell’India. Nel 2008 la Gulabi gang ha pianificato un’imboscata e occupato un ufficio della centrale elettrica del distretto di Banda (Uttar Pradesh) che aveva “sospeso” la distribuzione della corrente in tutto il villaggio in cambio di sonore bustarelle. Le paladine in rosa hanno sequestrato i funzionari in una stanza dell’ufficio finché non si sono arresi, restituendo al villaggio l’elettricità. La recente ondata di giustizia fatta-in-casa da parte di squadroni di vigilantes del gentil sesso suscita qualche preoccupazione fra politici e opinionisti. Ad esempio, nel 2004 un’orda di centinaia di donne ha picchiato a morte uno stupratore che la giustizia indiana aveva lasciato a piede libero.

Non mi va bene l’esercito di giustiziere, ma ricordiamoci almeno che in Italia e in Europa dagli anni ‘80 abbiamo fatto rivoluzioni non per vedere abortire nel bagno, con il solo aiuto del marito, una donna nella città di Roma, (fatto avvenuto la settimana scorsa). Obiettori di coscienza tutti anche gli ex cucchiai d’oro?

Che fare? Ricordiamocene nelle elezioni future, di eleggere donne che certamente non dimenticheranno le disuguaglianze vissute e certamente penseranno ai progetti per le società future. Solo per questo non è dell’8 marzo che voglio parlare o sognare ma di una possibilità all’uguaglianza di genere che solo un governo con donne potrà attuare. O dobbiamo prendere  anche noi il bastone

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