organizzare le conoscenze di Annamaria Mastropietro | La Fonte TV
“Sentite.
Torno a casa, una sera di tanti anni fa, e trovo mio figlio undicenne, curvo alla scrivania, che non risponde al mio saluto. Mi avvicino e scorgo un treno di lacrime che scende lentamente sul suo viso. Cosa può causare tale tristezza, tale amarezza in un bambino di undici anni? Guardo giù sul tavolo: il libro di testo di scienze è aperto alla pagina intitolata “La riproduzione asessuata e sessuata nella natura”. Grandi chiazze di acqua salata si asciugano lentamente sulla carta stampata. Metto un braccio sulle spalle del figlio e comincio a leggere. Le pagine sono piene di parole in neretto: “il rizoma, gli stoloni, la talea, la margotta, la propaggine, i gameti, lo zigote, gli anteridi, gli archegoni, gli anterozoidi, le oosfere, lo sporofito, le spore, il protonema – Aspettate non è finito – i sori, gli sporangi, il protallo, il peduncolo, il ricettacolo, il talamo, i sepali, la corolla (è una Toyota?), gli stami, i pistilli, l’antera, l’ovario, lo stilo (mica una “bic”), lo stimma…” (Christoph Baker).
Quanto sopra riportato da C. Baker significa una cosa sola: la scuola si ostina a privilegiare i contenuti e non l’organizzazione delle conoscenze, sebbene il cambiamento prodotto dalla rivoluzione tecnologica abbia modificato radicalmente l’intensità e la velocità dei processi di apprendimento.
Dimentica, la scuola, che “organiz- zare è già conoscere”; perché conoscere significa riuscire a ristrutturare, secondo una propria necessità di base e una propria struttura cognitiva, una serie di argomenti che sono stati costruiti da altri. Per far ciò occorrono strategie, cioè modelli di costruzioni che servono a dominare, a controllare e a sistemare l’ esperienza.
È l’apprendimento mediante strategie che ha concesso all’uomo di passare dalla condizione di pitecantropo a quella di homo sapiens.
“Insegnamento” dunque come educazione al metodo più che come strumento di trasmissione e di memorizzazione di contenuti. Infatti una trasmissione passiva comporta una ricezione passiva.
Attenzione, però, a facili e riduttive equazioni, perché se l’insegnamento fosse solo educazione al metodo si potrebbe giungere alla conclusione che qualunque tipo di contenuto è utile per insegnare il metodo e qualsiasi argomento può diventare appiglio per una concreta dimostrazione apprenditiva.
Questo principio portato alle estreme conseguenze generò l’equivoco del ’68, quando sembrò che non fosse più necessario imparare qualcosa, ma bastasse imparare ad imparare, cioè imparare il solo processo apprenditivo. Il rigetto totale dei contenuti comportò una severa critica del sapere in sé, cosa che si rivelò estremamente negativa per due motivi. Innanzitutto, se ci sono alcuni contenuti da rigettare, altri possono costituire colonne portanti di tutta una struttura cognitiva di base. In secondo luogo una “cultura” – nell’accezione antropologica – intesa come capacità personale di ricostruzione dell’esperienza, deve comunque avere parametri di riferimento anche di carattere contenutistico.
Contenuto chiama a sé valutazione, altro problema irrisolto.
La valutazione dei processi apprenditivi che avviene solo attraverso i risultati e trascura la processualità, cioè la conoscenza dei modi attraverso cui si arriva a certi risultati, impedisce di costruire una didattica corretta che miri ad educare ed acquisire le capacità della ricerca e dell’ impostazione dei problemi. Di fronte al tipo di conoscenze del nostro tempo e rispetto al nuovo modo con cui viene somministrata l’informazione, non si può, oggi, fare a meno di acquisire strategie.
La scuola deve fronteggiare un pericolo nuovo: il senso di disorientamento e di conseguente crisi di fronte all’ esplosione della conoscenza può indurre al ritorno ad un’egoità che si chiude pericolosamente al sociale e al politico, disabilitando l’uomo all’acquisizione di tutti quegli strumenti che gli consentono di diventare libero e partecipe.☺
annama.mastropietro@tiscali.it
“Sentite.
Torno a casa, una sera di tanti anni fa, e trovo mio figlio undicenne, curvo alla scrivania, che non risponde al mio saluto. Mi avvicino e scorgo un treno di lacrime che scende lentamente sul suo viso. Cosa può causare tale tristezza, tale amarezza in un bambino di undici anni? Guardo giù sul tavolo: il libro di testo di scienze è aperto alla pagina intitolata “La riproduzione asessuata e sessuata nella natura”. Grandi chiazze di acqua salata si asciugano lentamente sulla carta stampata. Metto un braccio sulle spalle del figlio e comincio a leggere. Le pagine sono piene di parole in neretto: “il rizoma, gli stoloni, la talea, la margotta, la propaggine, i gameti, lo zigote, gli anteridi, gli archegoni, gli anterozoidi, le oosfere, lo sporofito, le spore, il protonema – Aspettate non è finito – i sori, gli sporangi, il protallo, il peduncolo, il ricettacolo, il talamo, i sepali, la corolla (è una Toyota?), gli stami, i pistilli, l’antera, l’ovario, lo stilo (mica una “bic”), lo stimma…” (Christoph Baker).
Quanto sopra riportato da C. Baker significa una cosa sola: la scuola si ostina a privilegiare i contenuti e non l’organizzazione delle conoscenze, sebbene il cambiamento prodotto dalla rivoluzione tecnologica abbia modificato radicalmente l’intensità e la velocità dei processi di apprendimento.
Dimentica, la scuola, che “organiz- zare è già conoscere”; perché conoscere significa riuscire a ristrutturare, secondo una propria necessità di base e una propria struttura cognitiva, una serie di argomenti che sono stati costruiti da altri. Per far ciò occorrono strategie, cioè modelli di costruzioni che servono a dominare, a controllare e a sistemare l’ esperienza.
È l’apprendimento mediante strategie che ha concesso all’uomo di passare dalla condizione di pitecantropo a quella di homo sapiens.
“Insegnamento” dunque come educazione al metodo più che come strumento di trasmissione e di memorizzazione di contenuti. Infatti una trasmissione passiva comporta una ricezione passiva.
Attenzione, però, a facili e riduttive equazioni, perché se l’insegnamento fosse solo educazione al metodo si potrebbe giungere alla conclusione che qualunque tipo di contenuto è utile per insegnare il metodo e qualsiasi argomento può diventare appiglio per una concreta dimostrazione apprenditiva.
Questo principio portato alle estreme conseguenze generò l’equivoco del ’68, quando sembrò che non fosse più necessario imparare qualcosa, ma bastasse imparare ad imparare, cioè imparare il solo processo apprenditivo. Il rigetto totale dei contenuti comportò una severa critica del sapere in sé, cosa che si rivelò estremamente negativa per due motivi. Innanzitutto, se ci sono alcuni contenuti da rigettare, altri possono costituire colonne portanti di tutta una struttura cognitiva di base. In secondo luogo una “cultura” – nell’accezione antropologica – intesa come capacità personale di ricostruzione dell’esperienza, deve comunque avere parametri di riferimento anche di carattere contenutistico.
Contenuto chiama a sé valutazione, altro problema irrisolto.
La valutazione dei processi apprenditivi che avviene solo attraverso i risultati e trascura la processualità, cioè la conoscenza dei modi attraverso cui si arriva a certi risultati, impedisce di costruire una didattica corretta che miri ad educare ed acquisire le capacità della ricerca e dell’ impostazione dei problemi. Di fronte al tipo di conoscenze del nostro tempo e rispetto al nuovo modo con cui viene somministrata l’informazione, non si può, oggi, fare a meno di acquisire strategie.
La scuola deve fronteggiare un pericolo nuovo: il senso di disorientamento e di conseguente crisi di fronte all’ esplosione della conoscenza può indurre al ritorno ad un’egoità che si chiude pericolosamente al sociale e al politico, disabilitando l’uomo all’acquisizione di tutti quegli strumenti che gli consentono di diventare libero e partecipe.☺
organizzare le conoscenze di Annamaria Mastropietro
di
“Sentite.
Torno a casa, una sera di tanti anni fa, e trovo mio figlio undicenne, curvo alla scrivania, che non risponde al mio saluto. Mi avvicino e scorgo un treno di lacrime che scende lentamente sul suo viso. Cosa può causare tale tristezza, tale amarezza in un bambino di undici anni? Guardo giù sul tavolo: il libro di testo di scienze è aperto alla pagina intitolata “La riproduzione asessuata e sessuata nella natura”. Grandi chiazze di acqua salata si asciugano lentamente sulla carta stampata. Metto un braccio sulle spalle del figlio e comincio a leggere. Le pagine sono piene di parole in neretto: “il rizoma, gli stoloni, la talea, la margotta, la propaggine, i gameti, lo zigote, gli anteridi, gli archegoni, gli anterozoidi, le oosfere, lo sporofito, le spore, il protonema – Aspettate non è finito – i sori, gli sporangi, il protallo, il peduncolo, il ricettacolo, il talamo, i sepali, la corolla (è una Toyota?), gli stami, i pistilli, l’antera, l’ovario, lo stilo (mica una “bic”), lo stimma…” (Christoph Baker).
Quanto sopra riportato da C. Baker significa una cosa sola: la scuola si ostina a privilegiare i contenuti e non l’organizzazione delle conoscenze, sebbene il cambiamento prodotto dalla rivoluzione tecnologica abbia modificato radicalmente l’intensità e la velocità dei processi di apprendimento.
Dimentica, la scuola, che “organiz- zare è già conoscere”; perché conoscere significa riuscire a ristrutturare, secondo una propria necessità di base e una propria struttura cognitiva, una serie di argomenti che sono stati costruiti da altri. Per far ciò occorrono strategie, cioè modelli di costruzioni che servono a dominare, a controllare e a sistemare l’ esperienza.
È l’apprendimento mediante strategie che ha concesso all’uomo di passare dalla condizione di pitecantropo a quella di homo sapiens.
“Insegnamento” dunque come educazione al metodo più che come strumento di trasmissione e di memorizzazione di contenuti. Infatti una trasmissione passiva comporta una ricezione passiva.
Attenzione, però, a facili e riduttive equazioni, perché se l’insegnamento fosse solo educazione al metodo si potrebbe giungere alla conclusione che qualunque tipo di contenuto è utile per insegnare il metodo e qualsiasi argomento può diventare appiglio per una concreta dimostrazione apprenditiva.
Questo principio portato alle estreme conseguenze generò l’equivoco del ’68, quando sembrò che non fosse più necessario imparare qualcosa, ma bastasse imparare ad imparare, cioè imparare il solo processo apprenditivo. Il rigetto totale dei contenuti comportò una severa critica del sapere in sé, cosa che si rivelò estremamente negativa per due motivi. Innanzitutto, se ci sono alcuni contenuti da rigettare, altri possono costituire colonne portanti di tutta una struttura cognitiva di base. In secondo luogo una “cultura” – nell’accezione antropologica – intesa come capacità personale di ricostruzione dell’esperienza, deve comunque avere parametri di riferimento anche di carattere contenutistico.
Contenuto chiama a sé valutazione, altro problema irrisolto.
La valutazione dei processi apprenditivi che avviene solo attraverso i risultati e trascura la processualità, cioè la conoscenza dei modi attraverso cui si arriva a certi risultati, impedisce di costruire una didattica corretta che miri ad educare ed acquisire le capacità della ricerca e dell’ impostazione dei problemi. Di fronte al tipo di conoscenze del nostro tempo e rispetto al nuovo modo con cui viene somministrata l’informazione, non si può, oggi, fare a meno di acquisire strategie.
La scuola deve fronteggiare un pericolo nuovo: il senso di disorientamento e di conseguente crisi di fronte all’ esplosione della conoscenza può indurre al ritorno ad un’egoità che si chiude pericolosamente al sociale e al politico, disabilitando l’uomo all’acquisizione di tutti quegli strumenti che gli consentono di diventare libero e partecipe.☺
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