impegno civile
31 Agosto 2010 Share

impegno civile

 

Oggi il mondo aspetta con una impazienza straordinaria,

e mai raggiunta in passato,

una diagnosi meglio fondata;

ed è pronto ad accettarla e ansioso di provarla,

se essa fosse appena plausibile.

(John M. Keynes)

             L’intellettuale oggigiorno deve far riferimento ad una mutata situazione. Ci sono i partiti che mediano l’impegno politico dei cittadini, ci sono i politici che professionalmente si occupano della cosa pubblica e, soprattutto, c’è una società civile a cui le produzioni culturali e ideali arrivano in maniera più massiccia, più “democratica”, più istantanea e in forme più variegate. I mezzi di comunicazione di massa, oltre ad aver cambiato le coordinate di spazio e tempo nella ricezione delle idee, ne hanno mutato la morfologia stessa: i giornali, i libri, la televisione, Internet, i social network, Google (ciascuno per la propria parte e secondo le proprie peculiarità) hanno indotto altrettante variazioni “formali” nella produzione culturale. Diffondere idee attraverso un libro non ha (e non può avere) il medesimo stile che gli algoritmi di Google registrano nei suoi aggregatori di notizie.

L’intellettuale deve fare i conti con questa mutata situazione, con spirito “laico”, sine ira ac studio, senza abbandonarsi ad intemerate contro i nuovi media che depauperano la cultura, ma senza nemmeno gettarsi fra le braccia dei nuovi ritrovati tecnologici (es. iPad) come nuovi “vitelli d’oro” del marketing culturale. Così anche i partiti – che a dispetto di molti sono e restano indispensabili (stranamente in paesi come il nostro vengono menzionati anche dalla Costituzione, addirittura nella parte dei diritti dei cittadini, ma evidentemente gli odierni difensori “civili” della Carta colgono solo gli aspetti ironici, in ossequio al loro ilare capo) – devono fare i conti con questo nuovo stato di cose in cui il loro ruolo non può essere più quello di una volta, né tanto meno possono accontentarsi delle sezioni, del territorio o, peggio, delle “bocciofile”: siamo nel 2010, le lucciole non stanno poi così male e l’Italia ha attraversato cambiamenti che, pur se non piacciono a tutti, sono sostanziali e vanno compresi. A questo proposito, l’intellettuale deve partire obbligatoriamente da una lettura complessiva della società, nelle sue trasformazioni così come nelle dinamiche avviate da esse. Questa lettura deve sfociare in una “visione del mondo” quanto più esatta possibile, ma soprattutto libera e non inficiata da pregiudizi (anche culturali) o da retropensieri dettati da interessi contingenti, che l’intellettuale dovrà, poi, offrire a chi (partiti o organizzazioni in senso lato) vorrà servirsene nel proprio impegno politico.

Chi ha ben riflettuto su questi aspetti è stato Salvatore Biasco (Per una sinistra pensante, Marsilio). Ricostruendo il rapporto fra intellettuali e partito nella storia dei partiti della sinistra (soprattutto PCI e propaggini) egli individua il conflitto fra due figure principali: l’intellettuale “classico”, umanista, che presiedeva alla costruzione simbolica dell’ideologia, attraverso relazioni col mondo editoriale e accademico, e l’intellettuale “specialista”, dotato di competenze utili alla funzione di governo nei campi economico, giuridico e tecnico-amministrativo, che si diffuse, non a caso (cfr. conventio ad excludendum), solo dopo la caduta del PCI. Al giorno d’oggi – è l’opinione di Biasco – non ha più ragione d’esservi tale contrapposizione: la nuova “forma” d’intellettuale dev’essere un misto delle due precedenti. Non si devono più dare deleghe “cieche” a tecnici con funzioni di supplenza, ma gli intellettuali impegnati in politica dovranno essere attenti alle richieste dei vari mondi delle professioni, capaci di parlare loro mediante un linguaggio culturalmente definito e carico simbolicamente. Le idee da loro elaborate e discusse con la “società civile” troveranno eco, fermento e suggestioni nei dibattiti su riviste (si pensi al ruolo di New statements nel sorgere del New Labour) e nei vari Think – tanks, laboratori per la “costruzione ideazionale”.

Accanto a ciò, vi è però l’ineludibile problema della cosiddetta “politica di professione”: i mutamenti nei meccanismi di vita e sostentamento dei partiti, nei sistemi di comunicazione mediatica, gli standard di competenze richiesti per l’attività politica hanno ormai raggiunto livelli così elevati da raggiungere quasi a pieno l’ideale dell’autonomia del politico. L’intellettuale deve considerare questa situazione un dato di fatto e, per incidervi attraverso la sua produzione di idee, non ne dovrà trascurare l’alta “professionalizzazione” stratificatasi. Stando così le cose, quali possono essere degli esempi concreti di intellettuali che ricoprono un fattivo ruolo di impegno civile? Come insegna Arthur Schlesinger jr. “in una democrazia la leadership dipende in modo particolare da linguaggio, e il linguaggio usato determina il tono dell’azione politica. Infatti, il linguaggio è lo strumento con cui gli uomini politici si misurano con la realtà. Le parole possono esprimere la realtà, oppure semplificarla, presentarla in modo sentimentale, distorcerla o rifiutarla” (I cicli della storia americana, EST).

Oggi è proprio sulla qualità delle parole che bisogna lavorare: l’intellettuale dovrebbe trasformarsi in una sorta di “vigile della qualità” che certifichi quali discorsi politici (in senso lato) abbiano gli standard minimi per far parte della categoria doc. È chiaro che “una lingua viva non può essere fissata una volta per tutte, ma una lingua vera non può andare alla deriva, separando completamente le parole dal loro significato” (ibidem). Continuamente assistiamo invece a questa separazione e alla proliferazione nel discorso pubblico di quelle stronzate (bullshit) la cui qualità distintiva, secondo Harry Frankfurt che l’ha teorizzata, è di non avere essenzialmente alcun collegamento (nemmeno intenzionale) con la verità. Sono parole che hanno l’unico scopo di compiacere l’uditorio e di mantenere legami di mero coerentismo con quanto si vuole che gli altri ascoltino. La realtà scompare e rimane un universo a sé stante fatto di parole completamente scollegate dal mondo sottostante. Ci si trova in un “iperuranio” di stronzate (in senso tecnico) da cui sarebbe più che opportuno scappare, guidati da quegli intellettuali che hanno compreso la gravità della situazione in cui ci si trova.

Ancora adesso ci troviamo impelagati in una crisi economica scoppiata a causa della bolla dei derivati: questi ultimi sono dei contratti particolari il cui valore si basa sull’attività sottostante, quando questo legame ha iniziato a vacillare (sia per scossoni sui sottostanti, sia per variazioni sul valore del contratto derivato stesso), la bolla è esplosa ed è iniziata una gravissima crisi. Quella delle parole è una crisi molto simile: lo scollamento tra parole e realtà sta raggiungendo un boiling point simile ai derivati. Alcuni intellettuali, i più avveduti (Zagrebelsky, Dahl, Marconi, il compianto Berselli, per fare alcuni nomi), se ne sono accorti da tempo e hanno avvisato tutti di iniziare a riprendersi cura delle proprie parole. Cosa vuol dire “prendersi cura delle parole”?

Beniamino Placido, scrivendo alla figlia una lettera per spiegare le ragioni della sua appartenenza al Partito d’azione (Repubblica 08/02/2010), le racconta un apologo sulla voglia di volare di alcuni suoi compagni di gioventù a Potenza. “Come si fa a volare?” – si chiede – forse gettandosi a corpo morto nella valle? Chiaramente no, questo porta solo a grandi disastri (personali e collettivi). Si può volare solo “rispettando le leggi di gravità, non violandole. Ma rassegnandoci ad essere – paradossalmente – più pesanti dell' aria, senza illuderci di poter mai diventare più leggeri. Ma costruendoci dei dispositivi artificiali e complessi: estremamente artificiali, estremamente complessi. Che non ci danno la soddisfazione del volo umano, ma ci fanno andare per aria, a rispettabile velocità”. Questa è la civiltà, “una continua costruzione di protesi, un assiduo artigianato ortopedico”, e le parole sono le bende che rivestono e abbelliscono questa nostra opera. “Prendersi cura delle parole” vuol dire semplicemente amare la nostra condizione nella misura in cui ci consente di “andare per aria a rispettabile velocità”. Vediamo di non decelerare, altrimenti precipitiamo.☺

edoardo.lamedica@gmail.com

 

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