pace e guerra   di Silvio Malic
28 Dicembre 2012 Share

pace e guerra di Silvio Malic

 

Perché l’intento della Gaudium et Spes non ha potuto realizzarsi pienamente? La risposta alla domanda penetra il senso del dibattito postconciliare,  chiuso ancora nella diatriba tra continuità e rottura; tra coloro che accentuano la continuità con la perenne verità della fede e delle teologie precedenti e coloro che sottolineano il cambiamento da intraprendere.

Non era la verità in discussione al concilio ma il modo di porgerla all’uomo d’oggi e il metodo di approccio alle problematiche del mondo contemporaneo, ovvero, la cosiddetta pastorale: non tanto l’ortodossia, quanto l’ortoprassi, scrostata dai limiti di una certa cultura teologica occidentale.

Nella diversità delle posizioni si nasconde un presupposto mai detto ma dirimente tra le due posizioni. Un presupposto intellettualistico e volontaristico insieme, secondo il quale sarebbe possibile all’uomo guidare il processo storico per ricondurlo ad un ordine, ad una tranquillità dell’ordine. È vero che l’aspirazione all’ordine non è più rivolta al passato, non è più animata da un processo di restaurazione; è rivolta al futuro ma rimane nella sostanza immutata: la presenza cristiana nella storia è percepita come garanzia di ordine più che spinta al movimento e al cammino. Vi è, inoltre, la possibilità di attestarsi sulle posizioni della dottrina sociale aggiornata e rivisitata, accantonando l’intuizione creativa che si coglie nella lettura dei segni dei tempi. La chiesa diviene interprete della storia, si riconosce garante della ragione umana e di un ordine ideale ad essa coerente, ma giudica una storia che non guida e non promuove. Si giunge così alla massima valorizzazione della funzione magisteriale; riemerge la distinzione fra storia sacra e storia profana; però si accetta inevitabilmente il sacrificio delle dimensioni proprie della laicità, si realizza un passo indietro rispetto alla via aperta dal concilio.

Vi è un’altra possibilità, anch’essa presente e operante nella chiesa del dopo concilio, e più coerente con l’applicazione della categoria dei segni dei tempi, con le conseguenze che essa comporta. Non si tratta di mettere tra parentesi i dettami del magistero ma di personalizzarli e interiorizzarli a livello dei comportamenti di ogni cristiano: si tratta, per la Chiesa, di percorrere gli spazi necessari al sorgere di un giudizio profetico, più che dottrinale, sul mondo. Non si vuole una chiesa che avvalla tutto, benedice tutto quello che accade, che aderisce acriticamente agli eventi. Tutt’altro: si vorrebbe la potenza profetica più che il richiamo ad una dottrina in cui tutto è teoricamente risolto. Perché è il giudizio profetico quello che mette in moto meccanismi nuovi, che fa emergere nelle coscienze energie nuove che possano modificare il corso degli eventi. Si tratta, per tutti i cristiani, di prendere coscienza della inadeguatezza di una progettualità globale e di cercare perciò la via della progettualità possibile, continuamente legata alla lettura della realtà nel suo divenire mutevole.

Su questa via si ridimensionerebbe ogni pretesa di guida e di indirizzo a vantaggio di un ruolo di animazione (cfr. Lettera a Diogneto); si accentua la divaricazione (non mai separazione) fra ispirazione interiore e spiritualità da un lato e laicità delle competenze e dell’azione dall’altro; si esalta il valore della presenza molecolare quale di “seme gettato nel terreno” o “lievito immesso in una quantità di farina”; si recupera il senso e il valore delle virtù civiche rispetto ai modelli di società cristiana. Questa linea di cammino sembra capace di futuro, sfatando anche il contrasto apparente tra cristianesimo visibile e  cristianesimo invisibile.  Non la visibilità cristiana è in discussione, bensì le sue forme storiche; c’è urgenza di una visibilità altra rispetto alla forma antica della cristianità occidentale. L’obiettivo non è il passato ma il futuro; il recupero della dimensione escatologica ridimensiona ogni passato o presente e semplicemente spinge verso un futuro per il quale la categoria fondamentale di approccio non è l’ordine costituito ma l’avvento che irrompe.

Un segno visibile della questione: il tema della pace e della guerra a cui è dedicato il capitolo quinto della Gaudium et Spes. Il Concilio, nell’ottobre del 1962, iniziò il suo cammino in coincidenza con il rischio di una guerra nucleare nella crisi di Cuba. L’irrompere degli eventi segnò la riflessione dei padri: ne nacque l’urgenza di un documento che avesse a tema il “rapporto” tra Chiesa e mondo e la riflessione su “alcuni problemi” emergenti del tempo (anni sessanta del secolo scorso) e, tra questi, la pace e la guerra. La possibilità della guerra totale esige mentalità e comportamenti nuovi e il concilio ne proclama solennemente l’unica condanna esplicita; viene colto il nesso devastante  fra corsa agli armamenti e i problemi non risolti dello sviluppo; la necessità di un’autorità mondiale a garanzia della pace è lucidamente percepita. Ma il trascorrere degli anni ha accumulato nuovi e complessi problemi: l’esplosione di nuovi nazionalismi a forte identità religiosa e connesso terrorismo militare, in qualche modo legati della decolonizzazione e nuova colonizzazione economico-finanziaria; il moltiplicarsi delle guerre locali dette “dimenticate” perché in territori lontani da noi; l’esplodere di nuove ed esasperate forme di razzismo e di localismi; l’emergere della nuova realtà del pluralismo etnico nella vecchia Europa, ecc..

“L’inizio di un inizio” – definizione breve del concilio da parte di Rahner – ha messo in moto le giornate mondiali della pace, le marce della pace, liturgie consolidate promosse da cristiani. Ma chi aggredisce il riarmo costante delle nazioni “vera piaga” che umilia i poveri? Chi si batte perché fuoriescano dai bilanci degli stati le spese per armamenti, mentre i bilanci tagliano tutte le risorse allo sviluppo delle persone e dei popoli? Chi sostiene coraggiosamente i cammini di pace, nei luoghi istituzionali e nei luoghi di guerra reale, mentre le diplomazie sono prese a  ripulire la faccia delle sporche guerre economiche per farle divenire umanitarie? Non occorrono nuovi principi ma profeti in cammino sul campo. Rimane icona lacerante il grido solitario di Giovanni Paolo II contro la guerra in Iraq definita “illecita, ingiusta, immorale” e le cristianità varie  impegnate a giustificare la posizione in favore dell’aggressore. Si può ripetere, purtroppo a livello planetario, “dum Romae colsulitur Saguntum espugnatur” (mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnata). La via percorsa dai credenti risulta molto lontana dai propri principi ripetuti senza spessore storico. ☺

 

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