Il vangelo che non c’è
12 Gennaio 2016
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Il vangelo che non c’è

Se Peter Bergin – giovane ufficiale americano, protagonista del capolavoro di Mario Pomilio Il quinto evangelio – fosse ancora vivo forse direbbe che la sua ricerca, durata una vita intera, si è finalmente conclusa con l’avvento del vescovo di Roma J. M. Bergoglio, papa col nome di Francesco. È lui che autorizza (dal celebre “Chi sono io per giudicare un gay?” fino al recente “L’importante è guarire”, a proposito del profilattico per l’Aids) una rilettura del Vangelo che confermi la chiesa ospedale da campo e non palazzo del potere.

Ma andiamo con ordine. Nel 1945, a Colonia, Peter Bergin, alloggiato in una canonica, trova traccia di un “quinto evangelio”, che, come fiume carsico, apparirebbe e scomparirebbe nella tradizione cristiana. Lui è agnostico, ma è uno storico. La ricerca lo incuriosisce, lo tenta, alla fine lo cattura. Da quel momento Bergin continuerà, fino alla morte, quella ricerca, dopo avere messo su una piccola scuola di collaboratori.

Il romanzo, che è anche un saggio, “opera originalissima per tema e struttura … tutta d’immaginazione ma con il suggello della più assoluta credibilità”, è in fondo una lunga lettera, con tanti allegati, che Bergin invia al segretario romano della Pontificia Commissione Biblica informandolo passo passo della sua “inchiesta” sull’esistenza sfuggente di un quinto evangelio, di cui qua e là, nel tempo e nello spazio, dal sec. VII al sec. XX, dalla Calabria all’Olanda, appare qualche lacerto, qualche frase. Parole che non contraddicono mai i quattro vangeli canonici, ma, come dire?, ne completano il senso, lo approfondiscono, lo dilatano. Dai frammenti di questo misterioso e forse mitico vangelo emerge il sogno e il bisogno di una fede libera dalle sovrastrutture che il potere ecclesiastico usa per ingabbiarla, inaridirla e renderla inoffensiva. Chi ne sente il fascino, e quasi il richiamo sommesso lungo duemila anni di storia, è sempre uno spirito inquieto, insofferente di ipocrisie e legalismi (e del diritto canonico!).

Bergin però è andato oltre l’opera dello storico. Alla sua morte i discepoli trovano un suo dramma nel quale egli ha rivissuto i mille interrogativi suscitatigli dal miraggio d’un vangelo “altro”, un atto unico sul tema dello scontro irriducibile tra Potere e coscienza. Più e più volte, nelle 400 pagine del libro, affiorano definizioni del quinto evangelo, perché chi lo incontra, chi ne è abbagliato, chi ne teme la presenza scomoda, prova a descriverne la natura e gli effetti.

Così un monaco greco afferma che i frati leggono i vangeli canonici con superficialità, come un testo buono per “attingere alcune massime, ma non da scoprirsi giorno per giorno, e quasi da riscriversi, dal nostro animo, giorno per giorno” (p.103). Ecco, un vangelo da riscrivere con la nostra vita, forse è questo il quinto. E ancora: “cinque, dicono, sono in realtà gli Evangeli, e il quinto è come un libro che il Signore ha lasciato aperto. Lo scriviamo tutti noi con le opere che compiamo, e ciascuna generazione v’aggiunge una parola” (p.142). Oppure ecco la conclusione della vicenda di frate Eligio, che spende tutta la vita alla ricerca dell’“alterum evangelium” e infine si fa ricevere dal papa in Avignone. Il papa, commosso, lo abbraccia: “Non ti sconfortare se non lo hai trovato, perché il veritiero quinto evangelio è la tua fede, l’annunzio perpetuo di nostra Santa Chiesa. Poi decide di tornare da Avignone a Roma” (p.151). Ecco Pietro d’Artois: “gli Evangeli non furono bastanti a redimere e mutare il mondo, il Cristo ce ne ha dato da scrivere un quinto” … [Cioè] penetrando sempre più negli Evangeli e cercandovi la carità, l’intelligenza che ne avremo sarà così perfetta che veramente sarà come se ne avessimo composto un quinto (p.181). Nessuna meraviglia, allora, se incontriamo anche vescovi, inquisitori, teologi allarmati dalla carica destabilizzante di questo Cristo del quinto vangelo che dice “Sarete senza la Legge, ma non senza di me”, oppure “Padre, li ho salvati tutti”. Di qui incomprensioni, emarginazioni, persecuzioni. Nelle belle pagine del capitolo “La giustificazione” (in cui si adombra la vicenda di Pietro Giannone) si legge: “quello che io chiamavo il quinto evangelio è già contenuto negli altri quattro, e bisogna soltanto sapervelo riconoscere”. Come appunto sta insegnando il vescovo di Roma Bergoglio, che una trasmissione televisiva, non senza ragione, definisce “Papa ribelle”.

Un’ultima cosa. Il dramma finale (“Il Quinto Evangelista”) è ambientato nell’epoca nazista e rappresenta lo scontro decisivo tra la Legge (della Religione o dello Stato) e la Coscienza inespugnabile del cristiano. Forse non è facile a recitarsi, ma la lettura è avvincente.

Il quinto evangelio apparve nel 1975. Non è un caso che quest’anno sia stato riproposto da L’Orma editore, nel nuovo clima di attesa, di rinnovamento e di speranza, ma anche di allarmi conservatori e di colpi bassi.☺

 

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