Primi anni di insegnamento a Varese. Un giorno la mia collega Maria, maestra in prima classe, mi mostra i lividi sulle gambe e i segni di un morso sul braccio infertole da Paolo. Non è la prima volta che succede. Ogni volta che si cerca di farlo ragionare o che si stabiliscono dei limiti, Paolo, piccolo, terribile e bellissimo, si ribella e aggredisce chiunque gli è vicino; neanche lui sa perché. Maria mi chiede consigli da amica, visto che l’ente pubblico che dovrebbe fornire assistenza psicologica alle famiglie è, come al solito, latitante. Entriamo in contatto con la madre: Annarosa, carica dei suoi ventitre anni, minuta, magra, la pelle scura, gli occhi di perla nera, i lineamenti segnati da una timidezza dura e tenera insieme, ci racconta, con voce pacata, un po’ la storia del bambino. Nasce sei anni fa in un paesino della Calabria. Sedotta dall’amore, questo figlio l’ha voluto, l’ha amato, ha riposto in lui sogni poi non avverati, speranze perse, desideri svaniti… Il suo uomo beve e spende tutto in alcool, è violento, arrogante, li picchia. Lei piange perché non sa cosa dare al figlio, come farlo crescere e così scappa al Nord alla ricerca di un lavoro che permetta loro di vivere serenamente. Annarosa dice che Paolo non ha vestitini né giocattoli e la notte dorme per terra o su un divano sfondato; dice che quando lei lavora lo lascia per ore da solo chiuso in casa, un rifugio di fortuna, senza acqua né riscaldamento. Le suggerisco di trovare un po’ di tempo per prendere Paolo in braccio, per coccolarlo, per accarezzarlo, per cantare a bassa voce per lui, come quando era piccolo e non riusciva a dormire, come quando la vita le sembrava ancora un sogno. Io so che dietro alle crisi isteriche, alle lacrime, all’aggressività di Paolo c’è una disperata richiesta d’aiuto, c’è fame d’amore, di attenzione… L’esperienza del contatto fisico, dell’affetto, ha sempre toccato le corde dell’anima facendola suonare. Ma Annarosa non sente la musica; Annarosa ha solo dolore e lotta disperatamente ogni giorno per sopravvivere; mi guarda disorientata e anche un po’ delusa, forse la mia proposta le sembra strana, inutile. Se ne va e so che non ho il potere di imporle i dieci minuti d’amore tra lei e il figlio, ma sento che l’intuizione ci può condurre a un incontro con Paolo che prima o poi cederà alla musica del cuore e si abbandonerà ad una tenerezza senza limiti, a un mondo a sua misura, a misura di bambino.
Carolina
Primi anni di insegnamento a Varese. Un giorno la mia collega Maria, maestra in prima classe, mi mostra i lividi sulle gambe e i segni di un morso sul braccio infertole da Paolo. Non è la prima volta che succede. Ogni volta che si cerca di farlo ragionare o che si stabiliscono dei limiti, Paolo, piccolo, terribile e bellissimo, si ribella e aggredisce chiunque gli è vicino; neanche lui sa perché. Maria mi chiede consigli da amica, visto che l’ente pubblico che dovrebbe fornire assistenza psicologica alle famiglie è, come al solito, latitante. Entriamo in contatto con la madre: Annarosa, carica dei suoi ventitre anni, minuta, magra, la pelle scura, gli occhi di perla nera, i lineamenti segnati da una timidezza dura e tenera insieme, ci racconta, con voce pacata, un po’ la storia del bambino. Nasce sei anni fa in un paesino della Calabria. Sedotta dall’amore, questo figlio l’ha voluto, l’ha amato, ha riposto in lui sogni poi non avverati, speranze perse, desideri svaniti… Il suo uomo beve e spende tutto in alcool, è violento, arrogante, li picchia. Lei piange perché non sa cosa dare al figlio, come farlo crescere e così scappa al Nord alla ricerca di un lavoro che permetta loro di vivere serenamente. Annarosa dice che Paolo non ha vestitini né giocattoli e la notte dorme per terra o su un divano sfondato; dice che quando lei lavora lo lascia per ore da solo chiuso in casa, un rifugio di fortuna, senza acqua né riscaldamento. Le suggerisco di trovare un po’ di tempo per prendere Paolo in braccio, per coccolarlo, per accarezzarlo, per cantare a bassa voce per lui, come quando era piccolo e non riusciva a dormire, come quando la vita le sembrava ancora un sogno. Io so che dietro alle crisi isteriche, alle lacrime, all’aggressività di Paolo c’è una disperata richiesta d’aiuto, c’è fame d’amore, di attenzione… L’esperienza del contatto fisico, dell’affetto, ha sempre toccato le corde dell’anima facendola suonare. Ma Annarosa non sente la musica; Annarosa ha solo dolore e lotta disperatamente ogni giorno per sopravvivere; mi guarda disorientata e anche un po’ delusa, forse la mia proposta le sembra strana, inutile. Se ne va e so che non ho il potere di imporle i dieci minuti d’amore tra lei e il figlio, ma sento che l’intuizione ci può condurre a un incontro con Paolo che prima o poi cederà alla musica del cuore e si abbandonerà ad una tenerezza senza limiti, a un mondo a sua misura, a misura di bambino.
Primi anni di insegnamento a Varese. Un giorno la mia collega Maria, maestra in prima classe, mi mostra i lividi sulle gambe e i segni di un morso sul braccio infertole da Paolo. Non è la prima volta che succede. Ogni volta che si cerca di farlo ragionare o che si stabiliscono dei limiti, Paolo, piccolo, terribile e bellissimo, si ribella e aggredisce chiunque gli è vicino; neanche lui sa perché. Maria mi chiede consigli da amica, visto che l’ente pubblico che dovrebbe fornire assistenza psicologica alle famiglie è, come al solito, latitante. Entriamo in contatto con la madre: Annarosa, carica dei suoi ventitre anni, minuta, magra, la pelle scura, gli occhi di perla nera, i lineamenti segnati da una timidezza dura e tenera insieme, ci racconta, con voce pacata, un po’ la storia del bambino. Nasce sei anni fa in un paesino della Calabria. Sedotta dall’amore, questo figlio l’ha voluto, l’ha amato, ha riposto in lui sogni poi non avverati, speranze perse, desideri svaniti… Il suo uomo beve e spende tutto in alcool, è violento, arrogante, li picchia. Lei piange perché non sa cosa dare al figlio, come farlo crescere e così scappa al Nord alla ricerca di un lavoro che permetta loro di vivere serenamente. Annarosa dice che Paolo non ha vestitini né giocattoli e la notte dorme per terra o su un divano sfondato; dice che quando lei lavora lo lascia per ore da solo chiuso in casa, un rifugio di fortuna, senza acqua né riscaldamento. Le suggerisco di trovare un po’ di tempo per prendere Paolo in braccio, per coccolarlo, per accarezzarlo, per cantare a bassa voce per lui, come quando era piccolo e non riusciva a dormire, come quando la vita le sembrava ancora un sogno. Io so che dietro alle crisi isteriche, alle lacrime, all’aggressività di Paolo c’è una disperata richiesta d’aiuto, c’è fame d’amore, di attenzione… L’esperienza del contatto fisico, dell’affetto, ha sempre toccato le corde dell’anima facendola suonare. Ma Annarosa non sente la musica; Annarosa ha solo dolore e lotta disperatamente ogni giorno per sopravvivere; mi guarda disorientata e anche un po’ delusa, forse la mia proposta le sembra strana, inutile. Se ne va e so che non ho il potere di imporle i dieci minuti d’amore tra lei e il figlio, ma sento che l’intuizione ci può condurre a un incontro con Paolo che prima o poi cederà alla musica del cuore e si abbandonerà ad una tenerezza senza limiti, a un mondo a sua misura, a misura di bambino.
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