campobasso
22 Marzo 2010 Share

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Non un’opera celebrativa, ma il tentativo di comporre organicamente una serie di materiali e di strumenti di ricerca che possano servire come stimolo per nuovi studi e nuove piste esplorative. È questo il senso del progetto culturale che ha sorretto la redazione di Campobasso. Capoluogo del Molise (Palladino, 2008), appena data alle stampe e presentata nell’aula magna del Convitto Nazionale “M. Pagano” di Campobasso il 17 gennaio. Curata da Renato Lalli, Norberto Lombardi e Giorgio Palmieri, ai tre volumi che la compongono – racchiusi in un elegante cofanetto blu – va senz’altro riconosciuto il merito di essere la prima storia completa di Campobasso, visto che – lungo tutto il ‘900 – si sono succeduti tentativi lodevoli ma “parziali” in cui la ricostruzione delle vicende era puramente storica e abbracciava solo alcune epoche della vita della città.

Dopo le opere novecentesche di Antonino Mancini, Vincenzo Gasdìa e Uberto D’Andrea, insomma, mancava una ricognizione organica degli studi e delle fonti, arricchita per altro da una prospettiva più ampia, che guardasse all’economia, alla cultura, allo sport, all’informazione, alla circolazione della cultura, all’emigrazione, alle dinamiche sociali più attuali, nonché agli scenari futuri. Ora, finalmente, questo tentativo è nelle librerie e, lungi dall’ostentare un compiacimento localistico (che avrebbe il sapore di tanto, trito campanilismo tutto molisano), vuole porsi e porre una domanda: in che modo, oggi, Campobasso può continuare a essere efficacemente capoluogo di regione? In un Molise che ha perso velocità, che rispetto agli standard europei non riesce a stare al passo, che oggi si configura come una realtà essenzialmente policentrica e differenziata, che è profondamente mutato nei suoi assetti istituzionali, sociali, economici, culturali, nessuna eredità potrebbe salvarci da un futuro incerto o, nella peggiore delle ipotesi, inglorioso: dunque, la conoscenza può diventare strumento di analisi del passato, per muoversi nel presente e guardare al futuro in modo critico ma propositivo.

“Dobbiamo capire come muoverci in avanti”, ha ribadito più di una volta Norberto Lombardi, consapevoli che le vecchie funzioni amministrative non bastano probabilmente più e che, ad esempio, urge come il pane una formazione qualificata che manca ancora; citando poi il messaggio natalizio di Mons. Bregantini (possibile che i parroci se ne siano fatti scippare la primizia dell’uso da un intellettuale laico? Dai gradini di quanti altari se ne è parlato in queste vacanze? Bene, dunque, per la sensibilità e la lungimiranza dell’intellettuale, male per la pigrizia e la scarsa “reattività” dei pastori locali), Lombardi ha invitato a chiedersi come fare per trasformare la nostra marginalità in “tipicità”, per darle slancio e dare vita a quel “trapasso” di cui non possiamo non avvertire il bisogno.

Non risposte, forse, ma stimoli di riflessione sì, in quest’opera, e tanti. Dar conto della complessità della vita cittadina e della sua evoluzione dalle origini ad oggi, d’altronde, è proprio il filo rosso che collega tutti e 61 i contributi che la compongono, spalmati in 8 sezioni e 1700 pagine. Lo ha sottolineato Giorgio Palmieri, illustrando la struttura dei tre volumi, e sottolineando che in definitiva Campobasso non ha mai voluto porsi come centro egemone nel territorio, quanto piuttosto come polo di aggregazione e di raccordo: prima puramente commerciale ed economico, almeno fino al ‘700, poi essenzialmente culturale ed istituzionale, nell’800, e infine tipicamente urbanistico dal ‘900 a noi.  61 contributi, dicevamo: rischio di disomogeneità? Sì, calcolato e non del tutto eluso, a detta degli stessi curatori. Ma prezzo accettabile da pagare in un’impostazione così larga ed impegnativa. Composita la squadra degli autori, in cui si affiancano giovani promesse e nomi “consolidati”, e ricco l’apporto di ciascuno dei tre volumi, che si muovono in definitiva lungo due direttrici parallele: la prima ricostruisce la funzione di raccordo che la città svolge da almeno quattro secoli, la seconda coglie i diversi momenti e le forme che hanno segnato la modernizzazione e l’evoluzione della città di pari passo con l’evolversi del suo ruolo direzionale.

Qualche stonatura, però, emerge da un primo, rapido scorrimento dell’indice dei nomi: forse Mons. Vittorio Fusco – biblista di fama mondiale, per chi non lo sapesse – meritava di essere battuto “5 citazioni a 1” da Fred Bongusto? Forse Ermanno Dell’Omo (fama europea, invidiato da tutta Italia alla nostra piccola comunità nella quale ha tenacemente scelto di restare) meritava di essere dimenticato? Qualche assenza, purtroppo, si sente. Ma, visto che l’opera è un mattone di cantiere, non un edificio bell’e pronto, può essere di stimolo la segnalazione di qualche smagliatura. Anche questo è coscienza della propria identità, che – come ha affermato in apertura il sindaco Giuseppe Di Fabio – dev’essere strumento per acquisire una nuova capacità decisionale e di partecipazione democratica ai processi di sviluppo della città, insieme a quella “libertà per l’esercizio della critica che – ha ricordato in chiusura Norberto Lombardi – è indispensabile quando si vuole fare qualcosa di serio”. ☺

gadelis@libero.it

 

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