Ceta, ttip: dissentire
Ultimamente non si è parlato d’altro: la Vallonia (regione del Belgio) non cambia idea e continua a dire no al Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement) un accordo frutto di trattative condotte tra il 2008 e il 2014, descritto dalla Commissione Europea come “una pietra miliare per l’economia transatlantica”. Ma che in realtà promuoverà soprattutto l’agricoltura e l’allevamento industriali a scapito del buon cibo e delle buone produzioni e abbasserà standard vitali come il principio di precauzione e danneggerà il nostro patrimonio gastronomico svendendo molte indicazioni geografiche, basti pensare che l’accordo riconosce e rispetta solo 173 indicazioni geografiche europee, escludendone così oltre 1200.
E il dubbio dei valloni è lo stesso che riecheggia anche tra i tanti comitati e cittadini europei che sono poco convinti dei vantaggi di questo accordo: come assicurare che il Ceta non sia il cavallo di Troia del Ttip, l’eventuale trattato di libero scambio con gli Stati Uniti? Come fare in modo che le multinazionali con sede in Canada non utilizzino il Ceta per beneficiare di tutti i vantaggi che questi può offrire anticipando il Ttip?
Il Ttip è il famigerato Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, attraverso il quale gli Stati Uniti vorrebbero imporre all’Ue un modello in cui il libero accesso dei prodotti al mercato diverrebbe la regola, mentre le norme a tutela di salute, ambiente, lavoro e diritti dei consumatori sarebbero viste come ostacoli al commercio, da ridurre quindi allo stretto necessario.
In caso di ratifica del Ceta, la maggior parte delle multinazionali statunitensi già attive sul territorio canadese potranno citare in giudizio nei tribunali internazionali privati i governi europei, avvalendosi della clausola Investment court system (Ics), omologo dell’Isds previsto nella prima versione del Ttip. E sono già 42mila le aziende operanti nell’Unione Europea che fanno capo a società statunitensi con filiali in Canada. Con l’entrata in vigore del Ceta queste imprese potrebbero intentare cause agli Stati europei, senza bisogno del Ttip.
Quel che appare piuttosto chiaro in questo oscuro contenzioso è la debolezza di un diritto internazionale inesistente, mentre i confini economici svaniscono, e il sistema alimentare viene usato come un ariete per sfondare altri portoni.
Sfogliando una nota del servizio Affari internazionali del Senato, datata aprile 2015, risulta che l’Italia sarebbe tra i Paesi UE tra i maggiori beneficiari, in termini industriali, del buon esito dei negoziati. In caso di accordo commerciale, non limitato alla sola liberalizzazione tariffaria ma esteso anche a una significativa riduzione delle barriere non tariffarie e a un’ampia convergenza regolamentare, l’impatto sulla futura crescita italiana potrebbe sfiorare il mezzo punto percentuale. Dopo tre anni di applicazione dell’accordo è ipotizzabile una crescita del PIL di 5,6 miliari di euro, con un aumento stimato di posti di lavoro di circa 30.000 unità.
Mi chiedo quanto allora resisteranno i valloni lasciati soli in questa battaglia? E quanto sarà vera la battaglia ideologica condotta dalla Francia contro il Ttip? E noi comuni mortali che parte giocheremo in questa “guerra”? Sì, amici, quando si attaccano i diritti della salute, del lavoro, dell’ambiente, è giusto parlare di guerra. Le guerre non si fanno soltanto in modo tradizionale, ma sempre più ci sono guerre silenti, in molte parti del mondo, fatte in nome del benessere e dell’economia (anche queste da annoverare tra le armi non convenzionali). Tra queste cito ad esempio la pseudo “rivoluzione verde” fatta negli ultimi anni in India che, soprattutto nella regione del Punjab, ha provocato una catastrofe ambientale e umanitaria con forti carenze idriche, in una regione ricca di acqua, fortemente inquinata dalle sostanze tossiche usate per sperimentare l’agricoltura; contadini indebitati, con alte percentuali di malattie tumorali e suicidi. Questa guerra vinta sarà, come ogni guerra, un sicuro modello da esportare, e stavolta quasi sicuramente nell’area sub-sahariana, non appena sarà politicamente più stabile.
Credo che gli accordi passeranno, tra silenzi e indifferenza dei molti (e indignazione di pochi), perché la crisi economica lacera i più e il “fascino” di far riprendere a girare il motore della produzione prevarrà su tutto il resto.
Come cittadini dovremmo essere tutti d’accordo su possibili accordi commerciali; l’ideale sarebbe che si mettesse insieme la parte migliore della normativa statunitense – ad esempio sulle emissioni di mercurio dalle centrali a carbone, sulle emissioni delle auto, sui composti chimici nei giocattoli dei bambini – con la parte migliore delle norme europee. I testi del trattato mostrano, al contrario, che la spinta statunitense è tutta dalla parte opposta ed è molto determinata. ☺