Cogliere il proprio tempo
«…del viver ch’è un correre alla morte»: la ‘vera’ epigrafe, in chiave a tutto il libro, dovrebbe essere questo verso del Purgatorio (XXXIII 54). Tempo, soltanto tempo (Roma, Il Labirinto 2023, 14 euro) è la quarta silloge di Fabio Cirìachi (splendide la veste e la metafisica copertina, con riproduzione di Mauro Reggio, Via Giolitti, 2005), che il poeta prevede programmaticamente come ultima (ne scrive nella prosa di coda, intitolata – non casualmente – Per concludere). Dopo di che, auspica di potersi «veder assegnato, prima o poi, un posto fra i minori del mio tempo. Sarebbe un bel modo di esserci. I minori sono importanti. Come si potrebbe, senza la loro presenza, concepire lo spazio dei grandi?» (p. 110). Notevoli le precedenti raccolte, tutte edite da Empirìa di Roma, da quella di esordio prestigiosamente intitolata L’arte di chiamare con un filo di voce (1999), a Il giardino urbano (2003, con lo splendido monostico ‘di poetica’ a p. 51: «Io so che quando scrivo prego, credo») e Pastorizia (2011). Si è poi dedicato alla prosa, e ora, proprio nella collana «I nostoi» (In greco: «i ritorni»), ritorna ai versi. Tre sezioni: Tempo, Soltanto tempo, Senilità; poi un ampio Congedo di 13 componimenti e, a titolo di appendice, Numeri, ovvero la sola Variazione in prosa di un testo poetico che non viene presentato (ne spiega le ragioni la nota A proposito di Numeri e di Carlo Bordini). Nato nel 1944, Ciriachi è Un uomo dal Novecento, che va verso «la cremazione non lontana» (p. 81), e «del congedo considera importante/ l’eleganza» (p. 87). Ne scaturisce una silloge inquieta, da capo a fondo consapevole che «tutto converge al nulla», che la nostra è una fugace epifania nel Tempo, ma per breve segmento. E allora ha inteso qui applicarsi a «un ascolto di parole che rintracciasse la musica dell’esistente», in «una lingua franta, antiarmonica» – pur se sempre polarizzata attorno all’endecasillabo. Molti i testi mirabili: una morte al Supermercato; Occhiali ricusati, per ‘fare ancora colpo’, leggendo sul bus – forse l’85 o l’87 da cui, allibiti, i passeggeri assistono al feroce scontro fra un gabbiano e una gazza (Gabbiani 1: ma non meno truculente e drammatiche la 2 e la 3). E ancora le Carezze alla vecchia madre, La dentiera («accanto a cui dormire e di notte/ sognarla sorridente»), la compassione che ci portano I cani, eloquenti circa il nostro destino non meno del balcone in rovina, della casa degli avi dolorosamente venduta, delle Finestre che mettono in contatto una lite e il suo spettatore. Non affidabile, duplice volto ha perfino la Primavera, come dimostra questo monodistico: «I primi rami carichi di fiori/ la folla all’Istituto dei Tumori». A consolare perdura, per i più fortunati, l’amore (anche se «amore eterno è un ossimoro»): L’amore tra i vecchi, con Le inclusioni che pure comporta. Amore che ci «insegna a non sprecare il tempo», mantenendoci «felici nel continuo andare a scuola/ mano per mano, tutto sorprendente,/ con l’entusiasmo dell’adolescente». Quel verso di Dante avrà pure le sue ragioni… «tutto converge al nulla, ma ugualmente/ che sembri come andassimo a una festa».
								
						
						
						