con il sudore degli volto
20 Febbraio 2010 Share

con il sudore degli volto

Il fatto che la nostra Costituzione inizi con le parole: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, non è una maledizione per indolenti ma, forse in modo inconsapevole da parte dei costituenti, è un’eco della Scrittura ebraica. L’elemento principale che accomuna Dio e l’uomo all’inizio della creazione, infatti, è il lavoro, a cominciare da ciò che maggiormente differenzia l’uomo dal resto degli animali, cioè l’agricoltura grazie alla quale l’uomo supera la pulsione al consumo immediato e lavora sui tempi lunghi, sa attendere e conservare. L’autore biblico presenta prima di tutto Dio che lavora come agricoltore quando pianta il giardino in Eden (Gn 2,7-8) e, se nel primo racconto della creazione l’essere immagine e somiglianza di Dio è connesso con il dominio e la custodia su tutti gli altri animali (Gn 1,26-28), nel secondo racconto è legato alla coltivazione del giardino: “Il Signore prese l’uomo e lo collocò nel giardino di Eden per servire (il giardino, cioè coltivare) e custodire” (Gn 2,15). L’uomo proprio con il lavoro e la custodia del creato si manifesta come immagine e somiglianza di Dio, suo luogotenente sulla terra. Ecco perché il lavoro è, giustamente, l’elemento fondamentale per una società che voglia realizzare la giustizia. Quando l’uomo può essere artefice della propria vita e collaborare con gli altri suoi simili a governare il proprio ambiente naturale e sociale, afferma la propria dignità.

Il racconto biblico si differenzia in modo abissale, così, dai miti di creazione dei popoli circostanti, soprattutto quelli mesopotamici, secondo i quali l’umanità è stata creata per essere schiava degli dèi, essendo in una condizione di inferiorità rispetto ad essi. Nella bibbia invece l’uomo è sostanzialmente uguale a Dio, il quale gli affida la sovranità sul mondo creato, come ci ricorda il Salmo 8: “Che cosa è l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato il potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi” (v.5-7). Tuttavia succede qualcosa che stravolge la condizione originaria: il peccato, che crea la divisione tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e se stesso e tra l’uomo e il mondo. La trasgressione non ha a che fare con la sfera sessuale, come si crede nella volgarizzazione del mito, in quanto l’uomo ha ricevuto già prima del peccato il comando di crescere e moltiplicarsi e ciò può avvenire solo attraverso l’atto sessuale. Il peccato sta nel voler togliere Dio di mezzo, nel considerarsi non custode e luogotenente ma padrone assoluto: una forma di potere malata che avanza la pretesa anche sui propri simili quando, sempre secondo il racconto biblico, nasce la schiavitù, in occasione della costruzione della torre di Babele, perché l’uomo non lavora più per nutrirsi, ma per un’opera di affermazione di sé e di rivalsa sugli altri.

Dio non maledice l’uomo dopo il peccato, ma dichiara maledetto il suolo, cioè fa emergere l’innaturalità della scelta dell’uomo che stravolge il proprio rapporto con il mondo, facendone una fonte di maledizione: “Maledetto il suolo per causa tua; con dolore ne trarrai cibo per tutti i giorni della tua vita; spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Gn 3,17-19). Non è Dio a maledire il suolo, ma l’uomo a renderlo maledetto, in quanto la sua sete di potere e di affermazione di sé lo porta a violentare la natura e a stravolgerne i cicli, mettendola contro l’uomo stesso. Interpretando il testo in questo modo comprendiamo che Dio pone rimedio alla situazione, donando all’uomo il sabato. Non a caso nella formulazione del comando del sabato c’è un richiamo alla creazione: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame né il forestiero che lavora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno” (Es 20,8-11). Come a dire che nel vivere il sabato l’uomo partecipa del tempo stesso di Dio, torna ad essere la sua immagine. Il sabato ricorda all’uomo che non è uno schiavo, né degli déi né dei suoi simili, e fa del lavoro il tramite per poter poi coltivare la propria vita, darle il colore delle relazioni vissute, alimentare lo spirito. Se il lavoro è il segno della dignità dell’uomo, il sabato è il segno della sua sovranità, dello spazio della cura della propria libertà.

Il riposo di Dio, spesso interpretato maldestramente come entrata in una forma di quiete inerte, è in realtà il tempo che condivide con l’uomo, desiderando di entrare in relazione con lui, passeggiare con lui nel giardino (Gn 3,8). È forse anche per questo che Gesù guarisce di sabato: la guarigione fisica diventa il segno della riconciliazione con Dio e con il suo tempo, in quanto permette all’uomo bloccato dal male di tornare a vivere i ritmi di Dio. Ci possono essere due modi, solo apparentemente opposti, di trasgredire il sabato e quindi di offendere Dio e la sua immagine: abolendolo completamente e portando quindi l’uomo a uno stato di schiavitù, di non padronanza del tempo e della vita, oppure rendendo tutto sabato, tempo di inattività, attraverso la mancanza di lavoro. In ogni caso, ci dice la Scrittura, viene colpita l’immagine di Dio nell’uomo: sia quella del Dio che plasma la creazione e coltiva il giardino, sia quella del Dio che passeggia nella sua creazione dopo averla curata, per farne il luogo dell’incontro e del riposo. Ironicamente, con la stessa determinazione, la società attuale iperproduttiva e ipertecnologica sta annullando entrambi i tempi divini, rendendo il mondo un luogo di maledizione, in quanto l’uomo non ha più il motivo (il lavoro) né il tempo sacro (il sabato) per benedire il suo Creatore.☺

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