Contro i nuovi e i vecchi razzismi
28 Luglio 2020
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Contro i nuovi e i vecchi razzismi

Abbiamo assistito nelle ultime settimane all’ondata di scontri e indignazione sollevata dal terribile episodio di abuso e violenza razziale consumato ai danni di George Floyd di Minneapolis da parte di Derek Chauvin, un poliziotto intervenuto insieme ad altri tre colleghi a causa di una chiamata per il sospetto uso di una banconota contraffatta.

Abbiamo tutti in testa e negli occhi la terribile sequenza della violenza consumata ai danni del cittadino afroamericano che è stata legittimamente letta dai movimenti di rivendicazione come Black Lives Matter come una intollerabile recrudescenza, accanto ad altri episodi simili di questi giorni, di forme di segregazione razziale mai davvero sconfitte e smontate nella mentalità etnocentrica dominante.

Ho ritenuto pertanto utile, in un tempo recentemente e in modo crescente segnato da insensibilità verso i diritti fondamentali, riprendere alcune nozioni basilari delle discipline che insegno presso l’ateneo molisano relative alle nozioni di razza e cultura, di discriminazione e pregiudizio che mi sembra oggi opportuno riportare al cuore della riflessione di noi tutti.

Le manifestazioni, anche violente, scatenate dall’episodio luttuoso danno la misura di una condizione persistente di segregazione razziale molto concreta negli USA ai danni della popolazione afro-americana, ma possiamo dire che complessivamente il tema della discriminazione razziale resta una delle grandi linee divisorie tra soggetti e componenti delle società multietniche che mai come in questo caso vengono tragicamente portate alla luce.

Credo che in questo la riflessione critica sul binomio razza e cultura risulti allora particolarmente prezioso perché ci aiuta a riposizionare quella linea di discriminazione in un quadro storico che rende più comprensibile anche la sua traduzione e persistenza nel presente.

Razza e cultura

Nato dalla necessità classificatoria tipica del pensiero occidentale settecentesco, dapprima e consolidatasi intorno all’ evoluzionismo ottocentesco e primo novecentesco, il razzismo si basava sull’erroneo assioma secondo il quale certi tratti fisiologici corrispondevano a tratti e caratteristiche psicologiche e culturali degli esseri umani. La teoria razzista in realtà era perfettamente funzionale alla giustificazione del regime coloniale di sfruttamento e segregazione di alcune componenti occidentali/bianche in territori a maggioranza etnica altra o per giustificare l’impiego di manovalanza non pagata o sottopagata di altri gruppi per ottimizzare i guadagni delle imprese e aziende coloniali bianche.

Del tutto indifferente alle assunzioni successivamente maturate dalla biologia e dalla genetica a partire dalla metà del Novecento, tale assunto si è consolidato nell’ opinione pubblica corrente, disseminando in modo persistente la legittimazione di una supposta, quanto inverosimile inferiorità di certi gruppi rispetto ad altri e il pregiudizio inerente la predisposizione di questo o quest’altro gruppo verso attività e posture più devianti di certi gruppi etnici rispetto ad altri.

É vero altresì che l’intero sistema culturale occidentalcentrico e la stessa economia capitalista si sono rette nell’ultimo secolo e mezzo intorno a questo tipo di segregazioni, intrecciano il razzismo al sistema di riproduzione dei poteri forti e della supremazia bianca ai danni delle altre componenti culturali ed etniche in giro per i diversi angoli del Pianeta.

Gli studi antropologici hanno da un certo momento in poi osservato con grande cura e impegno critico i processi di costruzione della diversità e le discriminazioni attivate nei confronti delle minoranze – non necessariamente numeriche – nei diversi contesti sociali, politici e culturali e le diverse epoche recenti. La paura dello straniero è stata analizzata e decostruita dalla sociologia moderna che ne ha messo in luce la capacità di pervadere ogni minimo aspetto della rappresentazione: dai libri alla pubblicità, dall’immaginario cinematografico alle norme discriminatorie nei confronti dell’una o dell’altra minoranza, dalla selezione lavorativa a quella negli ambienti scolastici.

Oggi il razzismo, specie in contesti europei, viene manifestato più sottotraccia: sono in molti a rendersi conto che l’argomentazione di una supposta ‘inferiorità per ragioni di appartenenza razziale sia divenuta insostenibile pubblicamente: “non sono razzista, però…”.

Tuttavia, sappiamo anche come la tendenza discriminatoria, le spinte sovraniste e un certo odio verso l’altro e il diverso hanno preso campo nella retorica discriminatoria che fa dire: “non c’è niente da fare, hanno una ‘cultura’ diversa dalla nostra…”.

Il nuovo razzismo basa sulla differenza culturale – qualcosa che è difeso a livello globale dalle stesse agenzie delle Nazioni Unite come l’UNESCO come un valore prezioso e da salvaguardare – qualcosa di fondamentale – la sua retorica esclusiva e violenta, viene usato dai neo-fascismi e sovranismi statunitensi ed europei per chiudere le porte ai migranti, bloccare ogni processo legittimo e progressivo di integrazione tra differenze, alimenta le guerre tra poveri che puntano a far credere che solo nel preservare omogeneità culturale interna – una omogeneità immaginata e essenzialista, pregiudiziale, giacché nessuna identità è pura in sé, ma tutte derivanti da incontri e mescolanze – vi sia la possibilità di salvaguardare i diritti delle minoranze fragili interne a discapito di quelle fragilissime provenienti dai flussi migratori.

Retorica dellodio

L’uso politico delle discriminazioni razziali e culturali è cresciuto enormemente, è divenuto il cuore di una nuova retorica dell’odio, che procede parallela alla incapacità di riconoscimento delle differenze interne, dei diritti negati per le minoranze culturali e di orientamento sessuale e persino della stessa differenza di genere che permangono ancor oggi centrali nel sistema di prevaricazioni e violenze contemporanee.

Alimenta la rabbia- i discorsi dell’ odio traboccanti dalle reti – sopravanza le aperture radicali da sempre contenute al cuore dei messaggi ecumenici e delle teorie del dialogo, ignora gli appelli accorati dei giuristi, dei filosofi etici e del Papa stesso che negli ultimi mesi ha più volte insistito sulla assoluta incompatibilità di questi pensieri discriminatori nello spettro delle posizioni e delle pratiche cristiane. Come per le minoranze afroamericane nel contesto nordamericano, così è accaduto da sempre per le componenti migratorie nel contesto europeo e persino per quelle meridionali rispetto alle popolazioni nordiche nei contesti europei e nazionali.

Si è sempre più neri di qualcuno che è più bianco o a sud di qualche nord – verrebbe da dire – e proprio questo relativismo della differenza dovrebbe farci riflettere sulla sua radicale aporia e inconsistenza, anziché alimentare la convinzione che tali barriere debbano essere sostenute e difese a oltranza. Si è sempre più poveri di qualcuno che è più ricco, che è poi la grande verità di tutti questi partages discriminanti: la difesa di privilegi che dipendono da appartenenze comode e rassicuranti, da cui affermare, tutt’altro che ingenuamente: “non sono razzista, però..” E distogliere lo sguardo dai corpi martoriati dei migranti abbandonati in mare, degli afroamericani inchiodati a terra da un poliziotto troppo violento, delle salme troppo povere sepolte nelle fosse comuni dell’America pandemica.

Le manifestazioni di questi giorni, con il loro carico di violenza, ma anche con la forza di una nuova urgenza di sradicare questo sistema di discriminazioni per troppo tempo ignorato nel suo attraversare sotterraneo ogni minimo spaccato della società, ci obbligano a uscire dal perbenismo ignorante o di falsa coscienza in cui ci siamo cullati troppo a lungo e affrontare il cuore stesso del nostro disagio con la differenza, con ciò che percepiamo come distante e diverso da noi.

Riconsiderare al cuore stesso della comunità la sua radicale differenziazione interna e scoprire in essa una provocazione salvifica anziché un male da espungere per garantire la nostra rassicurante quanto surrettizia ‘normalità’.

La diversità è qualcosa che non abita fuori dalle culture, che ne definisce i limiti e da cui difendersi. La diversità le costituisce radicalmente, perché non vi è gruppo che non custodisca infinite varianti e modalità di dare corpo a codici e forme di espressione sedimentate nel tempo in precisi contesti. Questo sguardo relativista non azzera il senso di giustizia o di dovere, semmai ci insegna il rispetto e una responsabilità ancora più grande, a discernere con equilibrio e sobrietà il bene dal male senza i facili e pericolosi steccati fatti di pregiudizi e false teorie. Ci obbliga a essere informati e critici e a incontrare l’altro nel confronto denso che non si ferma al colore della pelle o alle forme del suo aspetto, né alla foggia dei suoi abiti o alle inclinazioni della sua lingua, ma scende in profondità dove lo sguardo non si ferma alle apparenze, il dialogo si fa intimo e si può respirare.☺

 

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