Il respiro della rugiada divina
19 Settembre 2018
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Il respiro della rugiada divina

L’angelo del Signore allontanò da loro la fiamma e rese l’interno della fornace come se vi soffiasse dentro un vento pieno di rugiada” (Dn 3,49-50).

Il Libro di Daniele è un libro complesso, pieno di visioni e di racconti simbolici, che la Bibbia ebraica colloca nella sezione degli Scritti, tra il libro di Ester e quelli di Esdra e Neemia, e la LXX pone invece tra i libri profetici, subito dopo Ezechiele. Per la sua redazione vengono impiegate due lingue, come per Esdra: all’inizio appare l’ebraico, poi da Dn 2,4 fino alla fine di Dn 7 il testo è scritto in aramaico e infine la sezione di Dn 8–12 è scritta di nuovo in ebraico. Le versioni greche e quelle latine contengono parti deuterocanoniche, come il salmo di Azaria e il cantico dei tre giovani nella fornace (Dn 3,24-90) e Dn 13 e 14, racconti indipendenti aggiunti forse in un secondo momento, che contengono la storia di Susanna (Dn 13), la satira sui cibi offerti all’idolo Bel (Dn 14,1-22), l’episodio del drago ucciso da Daniele, con il doppione di Dn 6, dove Daniele viene salvato dalla fossa dei leoni e nutrito dal profeta Abacuc (Dn 14,23-42).

La compresenza di due lingue si può spiegare ipotizzando che Dn 2–7 fosse in origine una raccolta aramaica, alla quale poi nel periodo maccabaico, segnato da forte nazionalismo e dalla tendenza a tornare alla lingua ebraica, sarebbe stata aggiunta la sezione di Dn 8–12 in ebraico, insieme al cap. 1 perché fungesse da introduzione.

Protagonista del libro è Daniele (il cui nome significa “il mio giudice è Dio”), un giovane israelita condotto insieme ai suoi compagni, Anania, Azaria e Misaele, alla corte babilonese per essere istruito nella cultura dei caldei. Egli si distingue per la sua spiccata intelligenza, per la sorprendente capacità di sciogliere enigmi e di giudicare persone ed eventi e per la sua esemplare fedeltà al Signore.

Un episodio, in particolare, che riguarda i tre amici di Daniele, rappresenta la resistenza dei giudei dinanzi allo strapotere di Nabucodonosor, re di Babilonia. Dopo aver fatto erigere un idolo d’oro (alto 30 metri e largo 3 metri), il re esige che i suoi sudditi lo adorino. I tre amici però si rifiutano, vengono denunciati da alcuni sapienti invidiosi e finiscono in una fornace ardente, dove però accade il prodigio: il calore delle fiamme non li danneggia, anzi un angelo di Dio interviene sostituendo il fuoco con un vento di rugiada. Questa salvezza inspiegabile sorprende a tal punto il re da spingerlo a elogiare i tre giovani e soprattutto a benedire il loro Dio.

Così in racconti didattici come questo viene riletta e attualizzata la lezione dei profeti dell’esilio su come il piccolo resto d’Israele debba vivere in mezzo ai popoli pagani. L’onnipotenza divina non si manifesta nel conferire a Israele una forza militare superiore a quella degli altri popoli, ma nel suscitare un’eroica ed attraente fedeltà alla Torah e una resistenza inflessibile dinanzi a chi calpesta la fede degli altri.

La fedeltà al Vangelo non si coniuga con nessun tipo di sopraffazione o di imposizione. Essa insegna a resistere ai prepotenti che si arrogano il diritto di vita o di morte dimenticando che uno solo è colui che “quando apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre” (Ap 3,7). Egli è l’unico Signore, l’unico che regna servendo senza vergognarsi di lavare i nostri piedi sporchi, l’unico che ci allena a una vita piena con la rugiada della sua tenerezza.

 

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