il vento e l’amore
28 Aprile 2010 Share

il vento e l’amore

 

 

È Pasqua, la sera, soffia un vento che fuori ti si porta, in casa rintrona; scrivo per La Fonte.

Vorrei parlare dell’amore non ricambiato, perduto nel sentimento comune, e della costruzione di un amore per converso.

Ed è Pasqua, la sera, e tira un vento di quelli che trascinano anche l’anima.

Mi piace trovare strane corrispondenze tra eventi disparati ma coincidenti nel tempo, come quando apro a caso da un libro fidato, sbircio tra le righe, alzo il capo, mi guardo intorno o penso all’intorno ed interpreto alla luce di quel che ho letto: una sorta di Cabala, solo me la gioco a parole, anziché a numeri.

Così è stasera, che mi sembra di riconoscere una simmetria di significato tra la Pasqua ventilata e la mia idea, che ancora deve prender forma, intanto esiste.

L’amore non ricambiato, perduto in certo modo, e la costruzione di un amore e il vento e la Pasqua.

Pasqua è una passione ingiusta, dapprima, la storia di un amore offeso e umiliato; poi il riscatto, la resurrezione, guadagnata proprio con la forza dell’amore.

Il vento, stasera. Il vento, che spazza devasta disorienta, è stesso artefice del movimento, libera l’atmosfera stantia, predispone il terreno ad accogliere frutti nuovi, li dissemina, apre alla vita.

La parabola della Pasqua, l’azione del vento – penso – somigliano all’alterna vicenda di chi ha perduto un amore, meglio crede di averlo perduto, perché non ne riceve risposta, e soffre tremendamente e muore un po’; però dopo ha l’ardire di risorgere, di dare all’energia del proprio amore una direzione diversa e fecondare di nuovo. Sentenzierebbero i materialisti che nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. Va così, in certo senso.

Quando a scuola studiamo le celeberrime terzine che Dante nel quinto canto dell’Inferno dedica all’amore, intoppiamo in un verso enigmatico: Amor che a nullo amato amar perdona. Difficile; e il professore prudente ci spiega che, ligio alla precettistica d’amore del suo tempo,  Dante vuole dire qui che nessuno che sia amato può fare a meno di amare a propria volta. Rimaniamo increduli, perché sì – magari fosse -, invece la pratica, pur nel breve giro dei quindici anni, insegna che vero è l’esatto contrario: che tanto più si ama, quanto più si corre il rischio di essere scansati come un ostacolo da gincana. Dante sarà stato un gran genio, ma l’oscuro Ferradini, autore di un’unica canzonetta d’amore, ci ha preso meglio: chi è troppo amato amore non dà, chi è meno amato più amore ti dà, chi  meno ama è più forte si sa.

Circolare e compiuto, un sillogismo perfetto.

Esperienza umanissima, diffusa quanto altre mai quella dell’amore non ricambiato, o deluso, o perduto che dir si voglia, tradotta in musica e in pittura e in poesia e nel novellare popolare: il meglio del nostro immaginario creativo e artistico è sostenuto dall’idea di un’assenza di Amore. Lì ci riconosciamo un po’tutti e ci piace cullarci nell’evocazione di quel sentimento di iniqua sconfitta,  specie se lo stiamo vivendo nella realtà; perché, per assurdo che possa sembrare, è vitale la malinconia, e guai cercare di evitarla: come sosteneva un poeta ferrato in materia, la malinconia  riempie tutti gli intervalli tra le passioni, fa in modo che un’anima in cui non c’è piacere né felicità sia comunque un’anima in cui accade qualcosa. C’è poi che è bello contemplare l’amore perduto, l’assenza d’amore, perché qualunque assenza, qualunque lontananza soddisfa la nostra tensione verso l’infinito, laddove la pienezza e la prossimità del finito, usuale e alla portata di occhi e mani, inevitabilmente ci angustia, ci mette di petto alla portata dei nostri limiti.

La delusione d’amore è per me l’icastica rappresentazione di Lavandare, con quella ragazza che ti pare di vederla… quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese!; e il moovie struggente di Eco, tanto sofferente per il rifiuto d’amore che Narciso le oppone, da consumarsi nel corpo fino a ridursi a voce sola, un’eco appunto; e la plastica disperazione di Didone che inveisce contro Enea già scappato… En dextra fidesque! (Ecco la promessa e la fede!), e ce l’hai di fronte quel grido e la bocca deturpata dal dolore; e il motteggio interrogativo, dolce e amaro insieme, di un amante alla donna una volta amata, ormai lontana, in una canzone di De André… andrai a vivere con Alice… o con un Casanova che ti promette di presentarti ai genitori o resterai più semplicemente dove un attimo vale un altro senza chiederti come mai, continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai.

Dall’ingloriosa sconfitta di un amore perduto ci risolleviamo per lo più e per fortuna. Tempo e fatica, noi per rispetto di noi, gli amici e le persone care per il nostro bene, la fede per chi ne ha; lento pede ri-conosciamo che la capacità di amare non si spegne come un fuoco di paglia, ma vibra sempre, si è solo inceppato il motore; e ci disponiamo a donare di nuovo, se è caso ricominciamo da altrove, meglio consapevoli che è un impegno che dura sforzo e sacrificio.

Certo, l’amore riuscito, perseve- rante, con il suo comitato di immagini, parole, suoni ci pare a confronto trito da divenire banale, petulante addirittura, almeno comico: il compiuto, con la sua gioiosa routinaria rotondità non ci appaga, quasi che senza lo strappo bhoèmienne non riuscissimo ad  elevare spirito e mente. A ulteriore riprova dell’insanibile nostra finitezza.

Chissà come, ho ricordato ora il racconto dell’erudito romano Aulo Gellio a proposito di Socrate e Santippe, coppia duratura per eccellenza. Dice Gellio che Alcibiade, diletto discepolo di Socrate, stupito dalle molestie con cui la bisbetica Santippe tormentava il marito, avesse chiesto al maestro perché mai continuasse a sopportare Santippe e non avesse cacciata di casa una donna di così cattivo carattere; Socrate così avrebbe risposto: “Se io sopporto tale persona in casa mi addestro e mi assuefaccio a meglio sopportare fuori l’impudenza e l’ingiustizia umana”.

Sublimazione morale e riduzione ironica, s’intende. Pure, la tolleranza di Socrate è necessaria alla costruzione di un amore quanto la valorizzazione della domestica scontata quotidianità, che – è questione di sguardi – pure si sgrana da farci intuire il vero: Saba paragona la moglie, amatissima compagna di una vita, né a stella né a miracolo divino né a prezioso scrigno d’oro, ma a tutte le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio; e Montale rievoca sé e la moglie nella posa familiare di scendere le scale a braccetto milioni di volte, segno di una tenacia di affetto che si misura nelle piccole cose di ogni giorno.

Di mezzo tra il deserto di un amore perso e la specie apparentemente ottusa e poco fascinosa di un rapporto consolidato c’è il percorso laborioso della costruzione; una canzone di Fossati ne mescola bene gli alterni opposti affetti: La costruzione di un amore spezza le vene delle mani, mescola il sangue col sudore, se te ne rimane. La costruzione di un amore non ripaga del dolore, è come un altare di sabbia in mezzo al mare… La costruzione del mio amore mi piace guardarla salire come un grattacielo di cento piani, e ad ogni piano c’è un sorriso per ogni inverno da passare…Se

È il mio augurio a tutti i perdenti d’amore per un maggio fiorito di speranze ed imprese; ad averci un link musicale sarebbe perfetto, ma poi forse fa niente, perché ciò che cura è l’aria che esalano le parole.☺

LucianaZingaro@libero.it

 

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