La corda della suggestione
12 Marzo 2016
laFonteTV (3191 articles)
Share

La corda della suggestione

L’anima io la immagino come un’arpa con tante corde, ciascuna delle quali corrisponde a un sentimento o a un’emozione e vibra la sua nota distintiva, a seconda delle circostanze ora più ora meno lungamente e ora più ora meno nitidamente, perché anche i sentimenti e le emozioni possono essere impuri e può esservi una gioia dal fondo un po’ torbido o un dolore vagamente grottesco.

Un posto a  parte tra le tante corde dell’anima ce l’ha una corda direi più nobile delle altre, perché le comprende tutte e ne utilizza i diversi suoni: è la corda della suggestione. Elastica e flessuosa, la corda della suggestione si nutre dell’occasione presente e poi però sospinge mente e cuore tra passato e futuro in un modo delizioso perché sempre indefinito. Mi piace questa corda perché è voltatile, certo, ma lascia il suo segno, in quanto mi invita a durare in me stessa.

La nota della suggestione scaturisce talora da un nonnulla, un odore, la madelaine di Proust, un’eco di voci, uno scorcio di paesaggio, un brano di lettura; altre volte è una realtà gravosa e incombente a produrne la vibrazione, allorquando l’anima suggerisce di ripensare il qui e l’ora a mezzo di una ginnastica altalenante tra  ricordi e desideri.

La recente manifestazione del “Family day”, quel che ne è seguito e ancora ne segue sono per me realtà tutt’altro che aeree, non solo perché le sento come una battuta d’arresto, quando non un insulto, al progresso giuridico e civile del nostro Paese, ma perché mi ha offeso, mi offende, il cattolicesimo d.o.c. issato come vessillo da molti degli oppositori al disegno di legge Cirinnà.

Io in quel cattolicesimo non mi riconosco, né vorrei; donde la suggestione, con la sua  la serie caotica ma non insensata di considerazioni, immagini, voci, memorie e speranze.

Ho pensato che il Vangelo cristiano è cattolico nell’essenza, in quanto la buona novella è il racconto del bene che tutti, universalmente, desideriamo ed è cattolico il Vangelo perché il racconto del bene che vi è svolto si fa esplicito invito a superare noi stessi e a declinare l’amore per Dio nei termini dell’amore per il prossimo, della benevolenza, della fraternità, della ricerca di giustizia. Ho pensato che la carità, per San Paolo il più grande dei doni dello spirito, coincide con l’incomoda porta stretta di San Marco, per passare la quale occorre andare oltre sé medesimi, oltre le abitudini confortevoli perché consolidate, oltre il pregiudizio: non c’è luogo del Vangelo che non insegni la solidarietà con chi è solo, sofferente, marginale, diverso; non c’è luogo del Vangelo che insegni l’esclusione; non c’è luogo del Vangelo che insegni il valore di un digiuno, il valore di un rito, se svuotato di intima partecipazione, di vero senso.

Mi sono venute quindi in mente le foto legate al mio cammino cristiano, un cammino frastagliato, discontinuo, talora lubrico, come capita a tanti, e lì, tra quelle foto, ho scorto una religiosità fatta di rispetto, discrezione, disponibilità all’incontro. Ho visto mia madre chinata su di me quand’ero bambina farmi delicatamente il segno della croce sulla fronte, mentre a letto si ripeteva insieme l’Angelo di Dio ed io puntualmente sbagliavo o crollavo dal sonno; lei allora si allontanava lieve, come era venuta. Giunta l’adolescenza e con essa il desiderio di autonomia, ho visto mia madre discostarsi dal mio letto senza segnarmi, perché le mie scelte erano la mia persona. Ho visto il messale e la Bibbia in cucina di nonna, che appena aveva fatto la terza elementare e leggeva i testi sacri per pregare e comprendere, ma sola, nel silenzio, quando noi altri si era andati via: era per lei il compenso di una giornata di fatica, la promessa di un conforto. Ho visto i mitici don del mio quartiere affannato e problematico di Milano offrire il sorriso dell’ accoglienza, l’attenzione dell’ascolto, il cibo del nutrimento a tutti quanti esorbitavano da ogni ordine costituito, anche perché non di ordine avevano bisogno, ma di amore.

Ho rammentato talune delle mie letture disorganiche ma puntuali, come tutto ciò che è frammentario; letture da Don Tonino Bello, da Padre Enzo Bianchi, da Padre Turoldo, da Carlo Maria Martini in particolare: proprio Carlo Maria Martini nella sua prima lettera pastorale indirizzata alla diocesi di Milano ed intitolata La dimensione contemplativa della vita sottolineava come il “problema morale” del cristiano non consista in una “ansiosa misurazione del lecito e dell’illecito”, ma in un “continuo superamento di sé in virtù di un fine assoluto e a partire da una spinta dello spirito”; spirito che è, come Martini scriveva nella preghiera conclusiva della stessa pastorale, “capacità trasformante del mondo” e ci permette di “guardare con coraggio i rischi della esistenza cristiana”. Coraggio cristiano è utilizzare nella loro pienezza i termini neotestamentari di bontà, carità, fedeltà, perseveranza, mitezza, purezza.

Nel mio vagare di suggestione in suggestione mi ha rincorso la voce calda e profonda di De André, il più cristiano dei nostri cantautori, a mio avviso. Mi suonava in mente “Il testamento di Tito”, brano nel quale uno dei ladroni crocifissi al fianco di Cristo enumera uno ad uno i comandamenti, ne rivela dalla sua prospettiva capovolta il fondo menzognero, finanche ipocrita, e ne propone la parodia, questa sì veridica, in quanto fatta di realtà umana; infine, ormai in punto di morte, quando “il buio toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti”, riferendosi a Gesù suo vicino sulla croce, egli così formula la sua personale professione di fede: “…io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore, nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”. Il senso di ogni croce, della croce. A presto.☺

 

laFonteTV

laFonteTV