La famiglia umana
6 Gennaio 2015 Share

La famiglia umana

Il tema dell’unica famiglia umana non è nuovo. Oggi emerge con nuovo contenuto alla luce di alcuni cambiamenti culturali importanti: il fenomeno della globalizzazione, il flusso migratorio, l’incontro, ormai in ogni luogo, con altre religioni, culture e modelli di vita differenti, la crisi economica planetaria ecc. Questi fenomeni erano oggetto di studio di specialisti di vari settori, oggi riguardano tutti. Ciò che è globale lo  incontriamo nelle nostre città e i suoi effetti ci coinvolgono direttamente. Spesso questa realtà genera paura, disagio, disorientamento; qualcuno racchiude il tutto nel concetto del nemico da combattere e ipotizza soluzioni radicali, normalmente di contrapposizione o di semplice argine ai fenomeni. In questo occorre riposizionare la cultura sociopolitica dei governi, delle nazionalità, dei popoli e delle fedi con la consapevolezza che “il presente non basta a nessuno” come afferma Arturo Paoli. Viviamo la sensazione di imprigionamento delle nostre vite alla stregua della birmana Aung San Suu Kyi che, nel 1995, al primo ritorno in libertà, dopo sei anni di  ingiusta prigionia, dichiarava “il mondo deve sapere che siamo prigionieri nel nostro stesso paese”.

Il futuro da costruire ci trova spiazzati con l’attrezzatura etica, culturale e politica con cui fino ad oggi ci siamo mossi a tutti i livelli. L’ONU è stata volutamente marginalizzata, perché si affermassero gli orientamenti dei vari G7/8/10/20 con relative istituzioni raccolte nella “troika” (FMI, BM e gli accordi del WTO). Unite alle strutture finanziarie ed economiche internazionali delineano non il governo della famiglia umana ma la governance dei poteri mondiali nelle cui mani sono stati ingabbiati e, a volte, stritolati i governi nazionali insieme ai loro popoli. Le vere attese della famiglia umana, ossia pace, sviluppo, salute, istruzione, lavoro in un contesto di accessibilità al governo e alla fruizione dei beni della terra, senza più fame e schiavitù, queste attese attendono ancora di essere messe in agenda in pari dignità per persone e popoli. Richiamo alla mente solo qualcuno dei grandi programmi mondiali: l’Agenda 21 di Rio de Janeiro sulla salvaguardia della terra, il protocollo di Kyoto sull’inquinamento dell’atmosfera e relativi cambiamenti climatici, il 2° decennio per l’acqua “fonte della vita” (2005-2015) dopo il 1° dal 1985 al 1995, ed altri ancora. Grandi prospettive, impegni solenni di tutti i governi: si è solo balbettato e si continua a farlo con criminogeno atteggiamento di rinvio. Le conseguenze colpiscono l’intera famiglia umana: ognuno di volta in volta lecca le proprie ferite, ma non si incammina verso le soluzioni studiate, programmate e… accantonate, purtroppo.

Nella chiesa cattolica e nella sua dottrina sociale il tema si affaccia come vero cambiamento di prospettiva codificato nel Concilio Vaticano II, ma già prospettato da papa Giovanni XXIII e ripreso dai pontefici successivi fino a papa Francesco che con coraggio lo mette in agenda ai popoli del nord del mondo con la sensibilità di chi proviene dalle sofferenze già patite con i popoli del sud. Eppure la chiesa, fin dalla sua origine, assume la definizione di sé come cattolica ovvero universale, ma non riesce ancora l’intero popolo di Dio a riconoscersi come parte attiva e passiva dell’intera famiglia umana, pur essendo ancora oggi l’unica associazione umana presente in tutti i paesi della terra abitata.

L’impianto della riflessione teologico-morale e culturale dell’insegnamento sociale si fonda sulla visione personalistica fino al punto però di rischiare un apparentamento di fatto con la visione individualistica. “È vero che fa parte del personalismo l’apertura all’altro e la costitutiva dimensione sociale, ma di fatto questo si è realizzato molto poco, appare facoltativo o lasciato alla carità e alla solidarietà come scelte personali. Lo schema sembra essere questo: si parte dalla persona e si allarga alla vita sociale ma spesso il passaggio non avviene e così l’ambito sociale rischia di essere qualcosa di esterno alla persona; con esso deve fare i conti ma non gli appartiene interiormente”.

Occorre dunque un passaggio deciso dalla persona all’intera famiglia umana. La persona umana – professiamo – è un essere costitutivamente sociale che non può trovare compimento a prescindere dal suo essere con gli altri e per gli altri. Il farsi prossimo del samaritano, nell’omonima parabola evangelica, accade al di là di ogni ruolo sociale perché si lascia provocare dal bisogno del malcapitato. E per servire quel malcapitato si affida ad una locanda. Per realizzare se stessa la persona ha bisogno tanto delle relazioni brevi (quelle della famiglia, degli amici, dei vicini, come oggi di dice) che delle relazioni lunghe, legate alle istituzioni e alle relazioni sociali. Il fatto che sia così separato, nella mente di tutti, l’aspetto privato da quello pubblico non fa bene a nessuno, né alle relazioni brevi né a quelle lunghe. Oggi soprattutto, nel contesto della globalizzazione, le relazioni lunghe sono diventate molto più prossime perché apparteniamo alla famiglia umana.

Paul Ricoeur ammoniva che non basta più il binomio io-tu ma deve entrare anche il terzo, colui che non vedrò mai perché è il lontano o che non incontrerò mai perché parte della generazione che verrà. Vàclav Havel riguardo alla sua esperienza di artista politico dichiarava: “Ho smesso di aspettare che il mondo migliorasse e ho esercitato il mio diritto di intervento in quel mondo, o, almeno, ho espresso la mia opinione in proposito”.

Sarà ora, forse e per tutti, di alzarci dal comodo divano tecnologico dal quale guardiamo e ci colleghiamo virtualmente col mondo e cominciare a percorrerlo nel tratto a noi possibile con gli altri e per gli altri, sperando che, al bisogno, qualche altro lo percorra con simpatia con noi e per noi. Potrebbe risultare un calcolo egoistico, comunque ci rimetterebbe sulla diritta via.☺

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