la leggerezza
7 Marzo 2010 Share

la leggerezza

 

 

È accaduto. E il dubbio amletico mi si è rivelato appena difforme e più perentoriamente dilemmatico: to be light or not to be (essere leggera o non esserlo).

Shakespaere ne sarebbe inorridito. O forse no, posto che nel to be che angustiava Amleto tanto da inclinarlo verso l’alternativa del not to be era assunta soprattutto la specie della leggerezza, della apparenza fantasmagorica priva di peso e sostanza.

Per dovere di chiarezza e perché gli aneddoti rendono plastiche anche le parabole metafisiche, mi soffermo sull’antecedente.

Il fatto è che qualche tempo fa, durante una piacevole conversazione di quelle che a ritmo di minuetto muovono dal tutto al nulla, un amico, il quale per altro non mi aveva lesinato lodi in materia di intelligenza e gradevolezza, tra un sorriso e una sgomitata mi ha suggerito che insomma non sarei abbastanza light. Il che, meglio se sei donna e particolarmente nell’attuale momento storico, sarebbe di norma l’inizio di un dramma da esistenzialismo piccolo-borghese alla Ibsen, tipo.

Infatti, sulle prime ci sono rimasta molto male. Poi ho riflettuto, ho lasciato decantare un paio di giorni e sono partita decisa all’attacco: che io light non vorrei esserlo manco per idea e che anzi, non per sfoderare la facile consueta retorica del paradosso, io a sentirmi dire di non essere light mi sento allora sì alleggerita.

Ed è così, soddisfazioni da vendetta eseguita a parte.

La lingua è importante, andrebbe usata con consapevolezza, a volte con cautela, perché, vai a capire se è la lingua che definisce la realtà o viceversa, comunque lingua e realtà vivono in simbiosi. Anche quando si tratta di lingue straniere, mettiamo l’inglese.

Light è riferito al peso, alla sostanza, dove easy muove sopra e sotto lungo la profondità e casual allude alla accidentalità dell’impatto.

Ecco, se mi fossi sentita dire di non essere abbastanza easy o casual, magari mi sarei costretta a valutare la mia incapacità di scivolare di su e di giù, avrei meditato sulla mia inabilità ad adattarmi al caso e a seconda, e, stante il peso, a spiccare il volo, ad andare oltre.

Questo il punto, dunque: mi ha infastidito all’inizio e rattristato di seguito, ad una più attenta considerazione, insieme all’elegante e a mio avviso francamente irritante comitato della parola light, la visione del mondo, degli esseri e dei loro rapporti che essa veicola, la mania della leggerezza incorporea concepita non come elaborazione tesa ad alleviare ciò che grave è naturalmente e fatalmente, ma come eliminazione di peso, deprivazione di materia, recisione di sostanza.

Non so se ab origine la colpa sia un po’di Kundera e dello stranoto formaggio dietetico, o è solo che ad un certo momento delle storie e della Storia ciclicamente tanto succede; resta che il light imperversa e fa tendenza, in ogni forma, ovunque e sempre.

Nel palinsesto ideale delle nostre giornate, delle nostre relazioni e degli eventi che le disciplinano vorremmo vedere abolito ogni peso, finanche il simpaticissimo grattacapo, che disinnesca il pericolo e lo rende più docile. Una leggerezza spiccia e sommaria, che, proprio in quanto non è di sostanza né di lì si avanza, ma volgarmente la sostanza la abolisce e la rifiuta, è priva dell’ironia, dell’umorismo, della poesia, della magia, dei vari strumenti umani che l’intelligenza, e specie la più “grave”, sa adoperare per attingere, questa volta, sì all’insostenibile leggerezza dell’essere.

Strano a dirsi, così stando le cose, che l’etimo del verbo pensare, attività nobile almeno quanto quella del percepire, derivi dal pensare latino, intensivo di pendere, come dire pesare e ripesare; strano pure che la legge fisica che governa il mondo e che tutto nonostante lo rende così saldamente compatto sia quella della gravità e che il suo scopritore, per pensarla questa legge, abbia dovuto essere colpito in capo da un grave, bello lucido e tondeggiante come la mela di Adamo ed Eva.

La leggerezza è agli antipodi, per l’appunto: non pensare, semplicemente, ovvero rinunciare alla qualifica che più di tutte è distintiva dell’uomo di elaborare, rimestare il peso, per poi, tacchete, superarlo.

Immagini alterne di leggerezza e gravità mi si affollano in mente mentre che ne parlo.

La più risolutiva quella di Dante, che costringe gli ignavi, leggeri quanti altri mai, indolenti nell’azione e nella parola, a seguire una insegna che corre turbinosa, incapace di fermarsi, la punizione idonea per coloro che mai hanno preso parte nella vita; gli  sciaurati, che mai non fur vivi tanto sono indegni, che Virgilio, sentenzioso, raccomanda a Dante di non spendere per loro nemmeno un’osservazione pausata e riflessa: non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

E sull’attitudine opposta di spendersi, di consumare il proprio peso mai rinnegandolo, ricordo le belle parole di un poeta tunisino vissuto nel primo Novecento e morto giovanissimo, Abừ l-Qasim al-Shabbi; persuaso del dovere morale di ridestare la coscienza del suo popolo contro la tirannide, Abừl-Qasim al-Shabbi marca la differenza tra vivere passivamente, leggermente, e voler vivere: In cima alla montagna, nel più segreto albero, nel mare scatenato, ascolta il mormorio dei venti…che io indossi la speranza, mi spogli di prudenza. Non temo sentieri rigorosi né fuochi alteri. Rifiutare le alte vette non è vivere, per sempre, nel fossato?

Mi sovvengono anche le osservazioni penetranti e dolenti di un materialista come Lucrezio a proposito del potere decisivo della mente, del suo peso, della facoltà che essa sola possiede di elucubrare al di sopra del mero principio vitale, al punto che la persona cui mens animusque remansit “cui siano rimasti mente e animo”, anche se straziata nel corpo e privata in gran parte del soffio vitale, tuttavia suscipit auras e vita cunctatur et haeret “respira l’aure di vita” e “s’attarda, s’aggrappa alla vita”.

Chiara, insomma, la differenza tra leggerezza e leggiadria: solo questa spicca il volo, dopo che ha scavato nella materia e se ne è intrisa, quasi. Come fa il poeta, che, scrive Emily Dickinson, svela gli aspetti e per contrasto ci conferma il diritto alla nostra povertà.

Ho da poco letto un articolo che parlava di un giocoliere milanese, figlio della buona borghesia meneghina, Rodrigo Morgante, il primo dottor clown italiano; lavora per la Fondazione Théodora, nata per portare ai bambini e ai ragazzi ricoverati in ospedale un po’ di serenità.

Rodrigo Morgante racconta di aver ricevuto in dono il suo primo naso rosso da una bambina che ora non c’è più; il dono era accompagnato da un bigliettino, diceva: Seguendo le leggi fisiche, il calabrone non potrebbe volare;  vola solo perché non sa che ha le ali troppo piccole.

Noi?☺

LucianaZingaro@libero.it

 

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