lacrime
21 Marzo 2010 Share

lacrime

 

Avrei confezionato – credo – una robetta primaverile, leggera e ariosa, magari.

E invece L’Aquila.

Non ho voglia di star qui a dire: meglio che al solito mi mancano idee e parole.

Qualunque cosa io scriva, sarà sembrata irrisoria a me prima. Unica venia.

Domani è Venerdì Santo. Campobasso, la “mia” città, si prepara ad una delle manifestazioni più partecipate dal suo popolo: la processione del Cristo morto, suggestiva come tante simili in Italia, specie al Sud.

La statua del Cristo morto, rigida e mirabilmente sofferta quale solo un corpo che è stato vivo può mostrarsi, sfila per le vie della città accompagnata da un corteo di fedeli e da un coro numeroso di uomini e donne vestiti di nero che cantano uno struggente inno al Cristo.

“Teco vorrei, o Signore, oggi portare la croce, nella tua doglia atroce io ti vorrei seguire”, recitano le battute iniziali. E la banda al seguito scandisce in una sinusoide di suono il baritono degli uomini ora, il soprano delle donne poi: l’abisso e il vertice di un identico, gratuito, inspiegabile dolore.

Commossi, tutti seguono il lutto: pure per poco, pure stante lo sfondo di palloncini e zucchero filato, Campobasso è zitta, composta.

Così immagino dovesse essere il trasporto del pubblico alla rappresentazione delle tragedie greche: il riconoscimento sulla scena di un dolore che ti riguarda, che potrebbe riguardarti, il turbamento, il silenzio, il lutto.

Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt. È un verso di Virgilio che amo tra gli altri; significa una verità dura che, complice la musica dell’esametro, si fa però dolcissima.

Esistono lacrime delle cose, nelle cose, e le vicende degli uomini toccano la mente.

Il dolore che sbigottisce mente e cuore si trasferisce naturalmente al corpo, agli atti, alla condotta: lo portiamo nella fissità dello sguardo, nell’abbigliamento sobrio, nella ritrosia dei modi, nel mutismo, nella tendenza a scansare rumori e incontri. Talora diventa rito il lutto, un medium di sacralità.

Il nero delle vesti delle donne del Sud, per esempio, almeno fino a qualche tempo fa, vedove o madri private dei figli, fazzoletto in testa e riserbo degli occhi.

Mia nonna ha vestito un lutto integrale color catrame per vent’anni, anche d’agosto che il sole era fervente e lei lavorava in campagna. Sempre. Quando io argomentavo con la verve polemica di tutti i giovani che “tanto è inutile, perché il lutto si porta dentro” e insistevo che anzi “il lutto si porta dentro e solo dentro”, nonna mi rispondeva nel suo ferrazzanese di sintesi, perentorio, ironico: “Pe’scì! L’sa’ tu!”. Ovvero, che io non sapevo proprio niente.

Finiva ogni contraddittorio.

Non capivo allora e mi piccavo; vorrei poterle dire adesso che quasi quasi ci sono.

C’è un modo del dolore che dà segni tangibili di sé all’esterno, perché dall’esterno è bene che si sappia. Off  limits, attenti bene: l’anima ha una sua territorialità, non è spazio di chiunque, o è di nessuno.

Ritorno a L’Aquila.

Fin d’ora, mentre scrivo, ad appena cinque giorni dal terremoto, qualcuno ha giustamente parlato di “bulimia mediatica”, per indicare l’eccesso di immagini e parole che ha fagocitato vivi e morti del terremoto in un chiasso da circo.

L’informazione, tributo civico dovuto, necessario, sarebbe altra cosa, non pregiudizialmente inconciliabile con la disciplina ed il riguardo altrui.

Esiste un silenzio presente, che partecipa del cordoglio, ma lo rispetta.

Lo dice bene la Bibbia. Nel libro di Giobbe si racconta di Giobbe, colpito d’improvviso da una forma di lebbra maligna che gli deformava volto e corpo, gli rendeva la voce fievole, lo straziava con atroci sofferenze. Tre amici di Giobbe, venuti a sapere la notizia, partirono ognuno dalla propria città per andare a consolarlo. Dapprima stentarono a riconoscere l’ami- co; poi, vedutolo, si misero a piangere, si stracciarono le vesti, si sparsero polvere sul capo; quindi “si sedettero con lui in terra per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che assai grande era il suo dolore”.

L’opposto dell’attuale baraonda, spesso distratta, sulla tragedia de L’Aquila.

E un silenzio cosciente avrebbe richiesto, a mio avviso, non solo la condizione dei terremotati, ma il terremoto in quanto tale, catastrofe delle catastrofi da che esiste memoria umana.

Se ci saranno state delle colpe di negligenza nella costruzione degli abitati civici e pubblici, è giusto che vengano indagate e punite, ma è stupefacente che il “j’accuse” furibondo del chi ha sbagliato cosa abbia preceduto non che la lucida ricerca della verità, la riflessione sulla nostra piccolezza a fronte della maestosità della natura.

Mi trovo così di nuovo a ricordare quel testimonio di razionalità mai dissociata da sensibilità verso la condizione umana che è stato Leopardi. Ne “La ginestra”, dopo l’affondo contro il secol superbo e sciocco ciecamente fiducioso nelle magnifiche sorti e progressive dell’umani- tà, Leopardi ammonisce: Nobile natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato… Né gli odi e l’ire fraterne, ancor più gravi d’ogni altro danno, accresce alle miserie sue, l’uomo incolpando del suo dolor, ma dà la colpa a quella che veramente è rea, che de’ mortali  madre è di parto e di voler matrigna.

Nient’altro.☺

LucianaZingaro@libero.it

 

 

 

 

 

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