Lavoratori poveri
3 Febbraio 2015 Share

Lavoratori poveri

La presenza della categoria sociale definita lavoratori poveri non è solo un fatto incidentale dovuto alla crisi economica ma, secondo varie opinioni, potrebbe essere un segnale pericoloso del mutamento involutivo del capitalismo occidentale. I lavoratori poveri sono presenti in tutti i paesi europei con percentuali variabili da nazione a nazione. Essi sono definiti in base alla soglia di povertà, fissata dal reddito medio nazionale. Chi lavora per almeno sette mesi l’anno e fa parte di un nucleo famigliare il cui reddito è inferiore alla mediana nazionale è un lavoratore povero. In Italia essi rappresentano circa il 13% dei lavoratori regolari ai quali andrebbero aggiunti quelli che fanno lavoro in nero.

Due tipi di lavoratori sembrano meglio incarnare il prototipo del lavoratore povero, sostiene una ricerca dell’università di Salerno: il primo è un individuo di sesso maschile, quarantenne, con diploma di scuola media/superiore anche non italiano e occupato a tempo determinato. Il secondo è un individuo di sesso femminile, trentenne, diplomato, con contratto a tempo determinato e residente al Sud. Il fenomeno è più diffuso nelle fasce di età tra i 15 e i 40 e tra gli over 60 (per lo più con bassa qualificazione e instabilità lavorativa pregressa). Altri aspetti che caratterizzano  questa categoria di lavoratori sono individuati nella loro permanenza sul mercato del lavoro da oltre 10 anni e dalla costatazione che trattasi di povertà in cui la responsabiltà personale sembra contare poco.

Sembrerebbe, quindi, più un fenomeno strutturale e non temporaneo, legato alla crisi. Se così dovesse essere verrebbe spontaneo chiedersi quale modello di organizzazione lavorativa, sociale ed economica tollera (o favorisce) la presenza di lavoratori poveri ben sapendo che essi si sentiranno sempre più esclusi, avviliti, incapaci di dare quel contributo personale (di demolizione e ricostruzione innovativa) che è alla base della evoluzione del capitalismo occidentale così come lo abbiamo studiato e così come lo abbiamo vissuto dal dopoguerra ai nostri giorni. Infatti la diffusione delle potenzialità e delle opportunità (sia dal punto di vista culturale che lavorativo) su tutto il bacino della popolazione, ha consentito (almeno fino a 20 anni fa) a ciascun cittadino maggiore possibilità di provare a modificare la propria vita, più facilità a contribuire ad innovare e creare, a rendere l’intero sistema più coeso e più dinamico.

“…si  parla di due modelli di costruzione dei sistemi sociali e politici: uno inclusivo e aperto e uno estrattivo e chiuso. Il primo corrisponde grosso modo alle democrazie capitalistiche occidentali ed è basato sul principio della diffusione del potere politico, della sicurezza dei diritti individuali fondamentali e della diffusione del modello lavorativo a bassa diseguaglianza economica. Nell’altro modello, che oggi grosso modo corrisponde al capitalismo cinese, la logica che tiene il paese è estrattiva delle risorse ed esclusivista, ovvero accumula in verticale e punta a riprodurre un’oligarchia forte che ha tutto l’interesse a restare coesa per dominare chi sta sotto…” lo sintetizza bene Nadia Urbinati in uno dei suoi articoli.

Se, in linea generale, i modelli di costruzione dei sistemi sociali e politici sono ancora quelli ai quali fa riferimento la Urbinati è lecito chiedersi dove stiamo andando. Quale modello di costruzione sociale è nei progetti del nostro governo? Incrementare il numero dei lavoratori poveri (che unitamente ai disoccupati rappresentano 1/4 della popolazione attiva), demolire le rappresentanze sindacali, mortificare il dibattito parlamentare ecc. sembrano  segnali allarmanti. Chi li deve interpretare? Oppure l’oggi è già il domani e ciò va bene a tutti! ☺

 

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