Una maternità che alimenta la fede
30 Giugno 2017
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Una maternità che alimenta la fede

«Soprattutto la madre era ammirevole e degna di gloriosa memoria… Esortava ciascuno dei suoi figli nella lingua dei padri, piena di nobili sentimenti, temprando la tenerezza femminile con un coraggio virile» (2Mac 7,20.21).

Il Secondo Libro dei Maccabei continua a raccontare, sulla scia del Primo Libro, il doloroso scontro tra l’ellenismo intento a fagocitare le tradizioni del popolo sottomesso e il giudaismo teso a reagire attaccandosi con maggiore forza alle proprie tradizioni. Anche se i dominatori cercano di annientare il ricordo di Dio innescando una sanguinosa persecuzione, egli viene presentato nel libro come colui che tutto vede (2Mac 9,5), come colui che sorveglia e guida la storia, ma anche come colui che vive (2Mac 7,33). Per non rinnegare questo Dio, il credente può persino abbracciare la morte. Sono presentati infatti due episodi di fedeltà alla fede: il primo narra del vecchio Eleazaro, uno scriba novantenne, che accetta di morire soffrendo atroci dolori pur di non trasgredire la legge col mangiare carni proibite (2Mac 6,18-31); il secondo è la storia di sette fratelli che preferiscono morire piuttosto che ripudiare la loro fede (2Mac 7,1-42).

Il martirio dei sette fratelli appare come l’esperienza più radicale della fedeltà a Dio, manifestata non con il culto della morte o qualche forma di necrofilia, ma con il rifiuto netto nei confronti delle lusinghe del re che si dichiara disposto a concedere i più grandi privilegi a chi accetta di rinnegare la sua fede, anche solo mediante il semplice gesto di mangiare carne proibita. Il fatto che vi siano persone capaci di resistere fino in fondo alle richieste del re è segno della fedeltà all’alleanza, dell’amore a Dio e al popolo. L’eroismo dei martiri in tal modo parla della fede che vince il mondo.

È proprio nell’ambito della persecuzione che si comincia a pensare che i giusti, che hanno testimoniato la fede con il dono della loro vita, alla fine dei tempi, quando il popolo entrerà nella pienezza della comunione con Dio, usciranno dal regno dei morti e torneranno in vita per partecipare alla felicità dei loro fratelli. Non si tratta dunque di un ritorno alla vita di questo mondo, ma dell’ingresso nel regno di Dio. Il fatto di riavere le proprie membra (2Mac 7,11) è quindi un’espressione simbolica per indicare una nuova vita: i martiri accettano la morte certi che, se anche l’uomo può conferire la morte, Dio restituisce il soffio di vita con la risurrezione della vita eterna.

In questo quadro emerge con forza la personalità della madre di sette fratelli, martirizzata dal re insieme ai suoi sette figli perché non ha abbandonato la fede giudaica e non ha accettato di aderire alle usanze greche. Essa è presentata come fosse un tutt’uno con i suoi figli arrestati e torturati, ma disposti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri: è una madre che soffre per e con i suoi figli, una madre che non si sostituisce a loro, una madre che incoraggia a non cedere alle proposte allettanti del tiranno, ma a restare liberi fidandosi di quel Dio che ha compassione dei suoi servi, che misteriosamente ha fatto apparire i suoi figli nel suo grembo e che li farà apparire anche nella nuova creazione della risurrezione (2Mac 7,23). La fede della madre appare dunque la matrice di quella dei suoi figli.

Le madri custodiscono la vita, ma al tempo stesso sono chiamate a far crescere i propri figli nella libertà, lottando contro tutto ciò che anestetizza i sentimenti e l’intelligenza e rende schiavi. Una madre trasmette vita non solo mettendo al mondo, ma insegnando coraggio e tenerezza. Madre è dunque colei che genera nel corpo, ma anche chi genera nello spirito. Madre è la comunità ecclesiale quando educa a restare liberi dai compromessi e fedeli a Dio e agli altri.

 

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