n. 16670
6 Marzo 2010 Share

n. 16670

 

“Sono un sacerdote cattolico polacco; sono anziano; voglio morire al suo posto, perché ha moglie e figli”. Si conclude a 47 anni nel campo di concentramento di Auschwitz la vita di Massimiliano Kolbe, immolatosi al posto di un altro prigioniero per placare la sete di sangue dei nazisti. Ricordare è necessario perché cancellare il passato dalla memoria significa correre il rischio di ripeterlo. Una morte eroica non si inventa, è il punto di arrivo di una esistenza interamente dedita agli altri.

A 17 anni Raimondo Kolbe si consacra a Dio entrando tra i francescani conventuali con il nome di Massimiliano. Proviene da una famiglia povera ma profondamente credente. Spesso la sera i genitori con i tre figli si ritrovano a pregare davanti all’immagine della Madonna nera di Czestochowa.

A Roma compie gli studi laureandosi in filosofia e teologia. Il 28 aprile 1918, mentre in Europa va consumandosi la prima guerra mondiale, viene ordinato sacerdote.

La salute è minata dalla tubercolosi polmonare e la sua vita sarà una via crucis verso gli ospedali, tuttavia l’ansia di annunciare il vangelo non lo abbandona in nessun istante. Nel 1927 fonda la città dell’Immacolata (Niepokalanow) dove si lavora per il regno di Dio, che diventa il primo centro editoriale cattolico della Polonia. Nel 1930 vuole esportare questo progetto e parte missionario per il Giappone dove rimarrà fino al 1936.

Con l’occupazione della Polonia da parte delle truppe tedesche comincia il calvario di padre Massimiliano che paga cara la sua fedeltà a Cristo. Il 28 maggio 1941 viene rinchiuso nel campo di concentramento ad Auschwitz con il n. 16670 tatuato sul braccio sinistro. Si lavora a ritmi infernali dall’alba al tramonto, con razioni di cibo appena sufficienti per sopravvivere. Il colonnello che dirige il campo un giorno, ridendo sarcasticamente, dice: “Voi uscirete di qui per la canna di un camino”.

La rabbia nazista più volte si scatena contro di lui perché è un “prete della malora”, riducendolo una volta in fin di vita. Ma Kolbe animato da una volontà indistruttibile si riprende perché sa che Dio è più forte del male. E in qualunque baracca viene gettato aiuta, conforta, incoraggia quei disgraziati ridotti così dallo strapotere e dalla malvagità del nazismo. “L’odio non è una forza creativa – suole ripetere. Soltanto l’amore crea”.

Un giorno un prigioniero riesce a fuggire. In dieci devono pagare con la vita. Tra questi c’è Francesco Gajowniczek che inebetito dalla disperazione mormora tra i singhiozzi: “Mia moglie… i miei figli…”. Massimiliano chiede e ottiene di sostituirsi a lui e così con gli altri nove scende nel bunker della fame, un sotterraneo dove in celle buie vengono ammassati senz’acqua e senza cibo coloro che sono destinati alla morte.

“Per la prima volta – racconta un testimone – si stupiscono anche gli aguzzini. Raccolti intorno a padre Kolbe i condannati pregano, a volte addirittura cantano. Nessun segno di disperazione, Massimiliano conforta tutti”.

Dopo due settimane, il 14 agosto un infermiere gli pratica un’iniezione letale. Il corpo viene gettato nel forno crematorio, le sue ceneri sparse nel vento feconderanno una nuova primavera per la Chiesa e la Polonia. Il 10 ottobre 1982 viene dichiarato martire e santo. ☺

 

eoc

eoc