“Ha nove anni, non ha mai conosciuto il padre, e la madre (sempre certa, ma anch'essa a lui sconosciuta) ha una grave forma diabetica che le ha procurato la cecità” a tutto questo va aggiunto la condanna a morte comminata all'alba del 09.09.2011. Catturato così il lettore, Ulisse, sul numero precedente, prosegue e lo trascina, con (…) un tirar sempre al cuore a tradimento di deamicisiana memoria, nel fantastico mondo infantile dove: “il sole splende, il cane abbaia”. In breve, dopo aver spiegato la differenza tra il ringhiare e l'abbaiare, non pago, abbandona, non senza averlo conquistato e trafitto, il cuore e mira alla testa del lettore per convincerlo e condurlo alle (Sue!) conclusioni.
Nel narrare l'episodio, l'autore ci racconta, in poche parole, che un amico di vecchia data reagisce in malo modo minacciando di morte il (Suo?) cane in seguito ad un abbaio dell'animale. Nel tirare alla testa utilizza, a Suo piacere, argomenti logico-giuridici. Tira in ballo gli “ordinamenti giuridici di tutto il mondo”, paragona l'abbaio al reato e, con evidente esagerazione provocatoria, sostiene che al proprietario vada comminata la condanna a morte. Intanto va detto che l'ordinamento tutela gli animali (cani inclusi) prevedendo sanzioni penali per chi li maltratta e il padrone/proprietario risponde, solo civilmente, per i danni causati dai propri.
Analizzando superficialmente la vicenda descritta emerge che le condotte (abbaio-minaccia) scaturiscono, come viene narrato, dalla paura di entrambi i protagonisti. Mentre la ragione (testa) differenzia l'uomo dalle bestie, invece la paura, stato emotivo irrazionale assoggettato e regolato esclusivamente dall'istinto, assimila l'uomo all'animale. Lo stato emotivo quindi pone sullo stesso piano l'uomo e l'animale pertanto, dal punto di vista logico-giuridico-razionale, appare inspiegabile la vistosa disparità di trattamento operata dal narratore. Difende, scusa e giustifica il cane che abbaia per paura, nondimeno spietatamente condanna l'amico che, sempre per paura, reagisce con le minacce di morte; non lo rassicura, utilizzando il dono della parola, con il “can che abbaia non morde” e, dopo averlo declassato a “ex falso amico” (uccidendo così un'amicizia trentennale!), con accanimento lo perseguita fin nell'intimo, nell'anima, coinvolgendo le grandi passioni ideologiche-religiose scomodando anche l'Eterno, di cui probabilmente mette in dubbio l'esistenza, pur di aggravare, con i sensi di colpa, la pena al proprio simile, condendo così il tutto con una punta di crudeltà tipicamente umana: gli animali per quanto feroci non sono crudeli come l'uomo.
Telemaco, amichevolmente.
“Ha nove anni, non ha mai conosciuto il padre, e la madre (sempre certa, ma anch'essa a lui sconosciuta) ha una grave forma diabetica che le ha procurato la cecità” a tutto questo va aggiunto la condanna a morte comminata all'alba del 09.09.2011. Catturato così il lettore, Ulisse, sul numero precedente, prosegue e lo trascina, con (…) un tirar sempre al cuore a tradimento di deamicisiana memoria, nel fantastico mondo infantile dove: “il sole splende, il cane abbaia”. In breve, dopo aver spiegato la differenza tra il ringhiare e l'abbaiare, non pago, abbandona, non senza averlo conquistato e trafitto, il cuore e mira alla testa del lettore per convincerlo e condurlo alle (Sue!) conclusioni.
Nel narrare l'episodio, l'autore ci racconta, in poche parole, che un amico di vecchia data reagisce in malo modo minacciando di morte il (Suo?) cane in seguito ad un abbaio dell'animale. Nel tirare alla testa utilizza, a Suo piacere, argomenti logico-giuridici. Tira in ballo gli “ordinamenti giuridici di tutto il mondo”, paragona l'abbaio al reato e, con evidente esagerazione provocatoria, sostiene che al proprietario vada comminata la condanna a morte. Intanto va detto che l'ordinamento tutela gli animali (cani inclusi) prevedendo sanzioni penali per chi li maltratta e il padrone/proprietario risponde, solo civilmente, per i danni causati dai propri.
Analizzando superficialmente la vicenda descritta emerge che le condotte (abbaio-minaccia) scaturiscono, come viene narrato, dalla paura di entrambi i protagonisti. Mentre la ragione (testa) differenzia l'uomo dalle bestie, invece la paura, stato emotivo irrazionale assoggettato e regolato esclusivamente dall'istinto, assimila l'uomo all'animale. Lo stato emotivo quindi pone sullo stesso piano l'uomo e l'animale pertanto, dal punto di vista logico-giuridico-razionale, appare inspiegabile la vistosa disparità di trattamento operata dal narratore. Difende, scusa e giustifica il cane che abbaia per paura, nondimeno spietatamente condanna l'amico che, sempre per paura, reagisce con le minacce di morte; non lo rassicura, utilizzando il dono della parola, con il “can che abbaia non morde” e, dopo averlo declassato a “ex falso amico” (uccidendo così un'amicizia trentennale!), con accanimento lo perseguita fin nell'intimo, nell'anima, coinvolgendo le grandi passioni ideologiche-religiose scomodando anche l'Eterno, di cui probabilmente mette in dubbio l'esistenza, pur di aggravare, con i sensi di colpa, la pena al proprio simile, condendo così il tutto con una punta di crudeltà tipicamente umana: gli animali per quanto feroci non sono crudeli come l'uomo.
“Ha nove anni, non ha mai conosciuto il padre, e la madre (sempre certa, ma anch'essa a lui sconosciuta) ha una grave forma diabetica che le ha procurato la cecità” a tutto questo va aggiunto la condanna a morte comminata all'alba del 09.09.2011. Catturato così il lettore, Ulisse, sul numero precedente, prosegue e lo trascina, con (…) un tirar sempre al cuore a tradimento di deamicisiana memoria, nel fantastico mondo infantile dove: “il sole splende, il cane abbaia”. In breve, dopo aver spiegato la differenza tra il ringhiare e l'abbaiare, non pago, abbandona, non senza averlo conquistato e trafitto, il cuore e mira alla testa del lettore per convincerlo e condurlo alle (Sue!) conclusioni.
Nel narrare l'episodio, l'autore ci racconta, in poche parole, che un amico di vecchia data reagisce in malo modo minacciando di morte il (Suo?) cane in seguito ad un abbaio dell'animale. Nel tirare alla testa utilizza, a Suo piacere, argomenti logico-giuridici. Tira in ballo gli “ordinamenti giuridici di tutto il mondo”, paragona l'abbaio al reato e, con evidente esagerazione provocatoria, sostiene che al proprietario vada comminata la condanna a morte. Intanto va detto che l'ordinamento tutela gli animali (cani inclusi) prevedendo sanzioni penali per chi li maltratta e il padrone/proprietario risponde, solo civilmente, per i danni causati dai propri.
Analizzando superficialmente la vicenda descritta emerge che le condotte (abbaio-minaccia) scaturiscono, come viene narrato, dalla paura di entrambi i protagonisti. Mentre la ragione (testa) differenzia l'uomo dalle bestie, invece la paura, stato emotivo irrazionale assoggettato e regolato esclusivamente dall'istinto, assimila l'uomo all'animale. Lo stato emotivo quindi pone sullo stesso piano l'uomo e l'animale pertanto, dal punto di vista logico-giuridico-razionale, appare inspiegabile la vistosa disparità di trattamento operata dal narratore. Difende, scusa e giustifica il cane che abbaia per paura, nondimeno spietatamente condanna l'amico che, sempre per paura, reagisce con le minacce di morte; non lo rassicura, utilizzando il dono della parola, con il “can che abbaia non morde” e, dopo averlo declassato a “ex falso amico” (uccidendo così un'amicizia trentennale!), con accanimento lo perseguita fin nell'intimo, nell'anima, coinvolgendo le grandi passioni ideologiche-religiose scomodando anche l'Eterno, di cui probabilmente mette in dubbio l'esistenza, pur di aggravare, con i sensi di colpa, la pena al proprio simile, condendo così il tutto con una punta di crudeltà tipicamente umana: gli animali per quanto feroci non sono crudeli come l'uomo.
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