Pulvis et umbra
8 Gennaio 2019
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Pulvis et umbra

Con l’arrivo del nuovo anno molti hanno il piacere di regalare un gadget che, sebbene superato dalla moderna tecnologia, continua ad occupare i primi posti fra gli articoli più venduti nel periodo natalizio, perché è utile ed economico, e dura tutto l’anno: il calendario.

La parola “calendario” è connessa con il termine latino Calendae (anticamente Kalendae), che indicava il primo giorno di ogni mese. Ma il calendario romano ebbe uno sviluppo lungo e tormentato per la necessità di conciliare l’originario sistema, basato sul mese lunare, che durava 355 giorni, con il ciclo dell’anno solare, che conta invece 365 giorni e 6 ore circa. Con l’aiuto di un matematico greco, Sosìgene, nel 46 a.C. Giulio Cesare decise di rimediare a questa discrepanza, attuando una profonda riforma che portò al cosiddetto “calendario giuliano”. In primo luogo inserì due mesi fra novembre e dicembre di quello stesso anno, che fu così il più lungo della storia. Quindi aumentò la durata di quei mesi che fino ad allora avevano avuto 29 giorni. Ne risultarono 7 mesi di 31 giorni: Ianuarius, “gennaio”, consacrato al dio Ianus, “Giano”, che, raffigurato con due volti fra loro opposti, poteva guardare allo stesso tempo verso il vecchio e il nuovo anno; Martius, “marzo”, dedicato a Marte, dio della guerra, poiché in quel periodo riprendevano le attività militari dopo la pausa invernale; Maius, “maggio”, in onore di Maia, dea della fecondità; Quintilis e Sextilis, “quinto” e “sesto” mese (contando da marzo, che in origine era il primo mese del calendario), e più tardi detti rispettivamente Iulius, “luglio”, e Augustus, “agosto”, in onore di Giulio Cesare e del suo successore Ottaviano Augusto; October e December, l’ottavo e il decimo mese. Avevano invece 30 giorni Aprilis, “aprile”, legato al concetto di “apertura” (dal verbo aperio, “aprire”) e di rinascita della natura; Iunius, “giugno”, consacrato a Giunone, sposa di Giove; September e November, il settimo e il nono mese sempre a partire da marzo. Manca all’appello ancora un mese: Februarius, “febbraio”, il cui nome era connesso a rituali di purificazione, come sembra suggerire il verbo februo, “purificare”, e al quale Cesare assegnò 28 e, ogni 4 anni, 29 giorni. Poiché tale data veniva indicata come dies bis sextus ante Kalendas Martias, di qui nacque l’uso di chiamare “bisestile” l’anno in cui febbraio conta 29 giorni. Questo calendario giuliano rimase in vigore fino al 1582, quando gli 11 minuti che rendevano ogni anno più lungo della sua reale durata resero necessaria una nuova riforma, promossa dal papa Gregorio XIII, che ha dato vita al cosiddetto “calendario gregoriano”, tuttora utilizzato.

Ciò che per noi si è ridotto a un elenco di numeri e di nomi aveva dunque un valore molto più profondo e suggestivo nell’antica cultura romana: l’identica e indistinguibile successione di giorni e di notti, di stagioni calde e fredde, riceveva tramite il calendario un preciso significato. Nella sua saggezza, il grande poeta latino Orazio, vissuto proprio all’epoca della riforma giuliana, aveva osservato che l’anno, con l’avvicendarsi delle stagioni, ci mostra come il tempo scorra inarrestabile: “Non sperare nell’immortalità: ti ammoniscono l’anno/ e l’ora che rapisce il giorno fonte di vita” (Odi IV 7, vv. 7-8). Ma a differenza delle stagioni, la vita degli uomini non ripete il suo corso. Pulvis et umbra sumus (v. 16): una volta varcata la soglia dell’aldilà, tutto finisce nel nulla e non rimangono che polvere e ombra.☺

 

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