Rivoluzione e libertà
19 Settembre 2023
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Rivoluzione e libertà

Sappiamo bene che la parola “libertà” comprende un ampio orizzonte di interpretazioni su cui inevitabilmente pesano le esperienze di vita e di studio, come pure le decodificazioni ideologiche che molto spesso condizionano i nostri pensieri ed il nostro rapporto sociale/culturale con gli altri. Con questo non vorremmo essere fraintesi sulla indifferibile necessità di alimentare una lettura ideologica della vita, della storia, dell’economia, dell’arte, etc..
E proprio per questa ragione la parola “libertà” suscita una serie interminabile di aspre polemiche e spesso anche di dure e risentite incomprensioni. Facciamo degli esempi banali: la libertà che si vive sotto un regime autoritario è chiaramente differente da quella che è praticata in un paese liberale come il nostro o come quelli che gli assomigliano. Ma se scendiamo più a fondo della questione, rimanendo in Italia, ci accorgiamo che la limitazione delle libertà qui da noi mette in risalto altri aspetti, spesso suasivi. Un esempio? La libertà di espressione in Italia ha le sue preoccupanti limitazioni: sulla guerra o sulla pace; sulla differenza di genere; sui migranti; sui poveracci senza fissa dimora, come normalmente si dice, e su molto altro ancora. Su tutto ciò sentiamo una infinita serie di sciocchezze, di pericolose banalità e di proclami razzisti. Ma se usciamo un poco dal solco nostrano e guardiamo alla condizione in cui versa la “politica” nel nostro emisfero occidentale, ci rendiamo conto che la “libertà”, intesa anche come partecipazione popolare alla res publica è molto limitata, perché i padroni del mondo, come scrive Noam Chomsky nel suo volume, Chi sono i padroni del mondo (la finanza internazionale), controllano tutto e tutti fino al punto di spegnere nell’animo degli individui qualsiasi interesse partecipativo alla vita collettiva e a quanto essa impegna e comporta. Tanto è vero che la enorme diffusione dell’astensione al voto nelle tornate elettorali può anche essere interpretata come un grimaldello, come un peso che ci viene buttato addosso e che ci inibisce alla partecipazione al voto, perché la libertà partecipativa viene negata, anzi impedita ai non abbienti e ai settori sofferenti della società civile, mancando una legge elettorale proporzionale, che ad oggi appare l’unico strumento civile che garantirebbe a tutte/i la libera partecipazione al voto.
E qui sta allo stato attuale il nodo, direi “ideologico”, in quanto, quando si parla di “libertà”, generalmente la si intende come quella individuale e non quella collettiva. Scrittrice di grande spessore intellettuale e rilevante punto di riferimento in relazione a tale tematica, è da molto tempo Hanna Arendt, nata ad Hannover, in Germania, nell’ottobre del 1906 e morta a New York nel dicembre del 1975. È stata critica inesauribile del nazionalsocialismo tedesco – il nazismo -, e per questa ragione fortemente perseguitata dalla polizia nazista. Passando per Parigi, la Arendt si trasferisce a New York, dove ha svolto liberamente la sua attività intellettuale, partecipando attivamente alla opposizione antinazista. È autrice di numerosi saggi, tra cui ricordiamo La banalità del male, Le origini del totalitarismo, ma è su On revolution” (1963 – la versione in italiano Sulla rivoluzione è del 1999) che indugeremo.
In questo libro la Arendt si sofferma sul tema della “libertà”, che ritiene essersi unicamente affermata negli USA. La vera ed unica rivoluzione che ha realizzato i suoi obiettivi primari, che erano quelli di conquistare la libertà dall’oppressione della monarchia inglese, è stata, per la Arendt, quella americana del 1765/1783. L’obiettivo principale della Rivoluzione americana era l’affermazione della Costituzione, che poneva al centro la libertà dell’individuo. Il fine della lotta antibritannica era quello di far valere con la Costituzione la propria indipendenza, Costituzione nella quale l’obiettivo primitivo era la difesa e la realizzazione della libertà individuale. Ma questa prospettiva si potrà realizzare, per la Arendt, se la “classe politica” rivendica con forza la sua autonomia dalla finanza. Ora se la rivoluzione americana (1765-1783) ha realizzato il suo obiettivo, quella francese (1789) e quella russo/sovietica (1917) non l’hanno realizzato, perché ad alimentare il processo rivoluzionario sono stati i problemi gravissimi delle povertà, della miseria e delle diseguaglianze sociali. Ma quale sarebbe stata la vera causa del loro fallimento per la Harendt? Il fatto che la lotta rivoluzionaria ha scatenato l’odio di classe e, di conseguenza, la violenza, facendo fallire la spinta rivoluzionaria, che avrebbe dovuto alimentare il processo del radicale cambiamento delle istituzioni, da vecchie (monarchiche ed illiberali) a quelle liberal/progressiste con punte socialisteggianti (in Francia) oppure social/comuniste (in Russia). L’obiettivo in Francia e in Russia era il raggiungimento fondamentale della giustizia sociale, dell’abolizione delle diseguaglianze sociali e non necessariamente il perseguimento delle libertà individuali, come prima ratio ed imprescindibile motivazione del processo rivoluzionario.
Per Hannah Arendt – noi ci limitiamo semplicemente a riportarne il pensiero! – i rivoluzionari francesi prima e russi poi si sarebbero fatti condizionare dal sentimento della “compassione”, che si accompagnava a quello della “passione” per la rivoluzione. Infatti, “La rivoluzione americana in tutti suoi momenti non fu chiamata a derogare dal suo fine di instaurare la libertà. (…) quella francese, uccisa dalla pietà, smarrì la strada: credendo che la politica potesse deviare nel sociale, lasciò cadere l’esigenza di liberazione dalla tirannide, per adempiere al compito più urgente di liberare la sofferenza dai ceppi della necessità. Perdette tutto. La svolta verso la violenza arbitraria, l’illegalità del “tutto è permesso” sì scaturiva dal cuore, ma la sua stessa grandezza contribuì a scatenare un oceano di infinita violenza”. (Introduzione, XLVIII). La rivoluzione americana cercò di evitare il clima dei sospetti, che non fece altro che accrescere la repressione in quella francese (1789), travolgendola nell’autoepurazione. In effetti, in Francia negli anni successivi al 1789 si diffuse il “Terrore”, che fu la tomba della rivoluzione.
Tuttavia, constatiamo che da allora ad oggi dalla “libertà”, per quanto possa apparire assurdo, nascono e si diffondono a macchia d’olio considerevoli diseguaglianze, la cui conseguenza non è altro che la diminuzione e poi la perdita della “libertà”, a tutto vantaggio di quanti, e costoro sono davvero pochissimi, governano. Infatti, la Arendt aggiunge anche “Coloro che sentivano improcrastinabile la necessità di liberarsi della povertà o dei loro padroni chiesero soccorso a quelli che si stavano battendo per fondare uno spazio per la libertà pubblica e questi accorsero: il risultato fu che si dovette dare la priorità al bisogno, e che gli uomini della rivoluzione si occuparono sempre meno di quello che originariamente avevano considerato il loro compito più importante, la creazione di una costituzione. Tocqueville riteneva che fra tutte le idee e tutti i sentimenti da cui fu preparata la Rivoluzione, l’idea e l’amore della libertà pubblica propriamente detta fossero stati i primi a scomparire”(Introduzione, LI).☺

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