safhia, la venduta
6 Marzo 2010 Share

safhia, la venduta

 

Safhia è lì, seduta su quella sedia, sperando di non dover partire un’altra volta. Piange Safhia, chiede aiuto per Emanuele. Il bambino è malato, è vivo per miracolo dopo i mesi passati in ospedale per una grave malformazione cardiaca. La scure è pronta a cadere sul collo. Per lei il conto alla rovescia è un calendario in cui cancella i giorni che mancano all’espulsione o a diventare una clandestina che deve accudire un piccolo malato, mentre la cartella clinica del bambino si arricchisce di dettagli. Solo dimostrando, documenti alla mano, le effettive condizioni di salute di Manuele sarà possibile evitare quel viaggio, la cacciata, la condanna a morte.

Accanto a Safhia altre donne. Per lo più sono giovani. Come tutte le mamme. Un’età indefinibile al primo sguardo, che può scivolare in un soffio dai venti ai quarant’anni. Tutte educate, rispettose, carine. Hanno i bambini in braccio e qualche rancore nel cuore, ma sono piene di sogni ed aspettative. Hanno lacrime e pugni da battere sul tavolo, parole dure come un’accetta e sorrisi improvvisi. Chiedono senza chiedere davvero. Aspettano, non proprio Godot, ma qualcosa di sicuro, l’evento degli eventi, la salvezza, la via di fuga o d’uscita da vite che sono sospese. Tutto per loro è sospeso. Non hanno case vere, vivono in transito, in stanze in centri di accoglienza per donne e bambini, camerate anonime, impossibili da personalizzare. Niente a cui legarsi, niente che dia radici o ricordi, che rappresenti, che sia. Nessuna di loro riesce a trovare un lavoro stabile. Come si può, avendo un neonato in braccio? Conoscono la spada di Damocle del permesso di soggiorno che scade al compimento del sesto mese di vita del bambino. Hanno davanti un incubo: trovare ogni giorno i soldi per mangiare. Il pensiero eternamente diviso tra la voglia di restare in Italia e quella di tornare in patria, dove la povertà è forse la stessa, forse addirittura maggiore, ma ci sono familiari, amici, in qualche caso mariti ed altri bambini. La sospensione della vita è la loro realtà quotidiana. Il dilemma è l’unica certezza: quell’essere straniere e cittadine di Roma, allo stesso tempo. Vivere e non vivere.

Safhia invece una certezza ce l’ha. A casa non vuole tornare. Non ha nessuno che l’aspetti. Qui dovrebbe lasciare il marito e il bambino oppure partire con il piccolo, troppo debole per sostenere un viaggio in aereo. Una storia che è in qualche modo la punta dell’iceberg. Il dolore allo stato puro. Il caso più disperato. Safhia appartiene all’altra storia delle donne, quelle vendute, umiliate, buttate sul marciapiede, costrette a prostituirsi per pagare il debito contratto dalle famiglie, per riscattarsi, esistere. Non lo dice all’inizio, si vergogna. È solo in questura che il segreto della donna acquista consistenza per gli avvocati del Salvamamme. I poliziotti motivano il provvedimento e spiegano. Safhia è stata una prostituta, non ha i documenti, deve lasciare l’Italia. È solo allora che lei si racconta davvero.

“Ho fatto strada” dice abbassando lo sguardo, e descrive una vita terribile. È alta Safhia, bella. Trentatré anni passati con un soffio. Nel villaggio in Camerun ha lasciato tre figli che non ha più rivisto. Il padre l’ha venduta da piccola. “Quando sono rimasta incinta l’hanno detto all’uomo cui mi avevano dato di sposarmi. Ma il matrimonio non è continuato, mi ha lasciato con tre figli, sono tornata da mia madre, dovevamo mangiare tutti e quattro. In Africa non c’è lavoro. Che potevo fare? Quando mi ha chiamato una paesana da qui sono venuta a Italia. Mi aveva promesso un lavoro, invece poi ha detto: ormai sei grande, hai tre figli, non hai più nulla da perdere. Vai sulla strada, io aiuto te ma tu devi darmi i soldi”.

“Ho fatto la strada” ripete Safhia e trasmette quello schifo con uno sguardo innocente ed un gesto sconsolato della mano che chiude il discorso. “Ma ti prego, non la voglio raccontare. Sulla strada sono andata per un debito con la “paesana” di venticinque milioni di lire”. Vogliono dire due anni di strada e disperazione, di botte e umiliazioni, di solitudine e paura, sempre sognando di sfuggire ai nuovi padroni. A salvarla interviene un sacerdote conosciuto per caso, dal quale riceve la forza e la consapevolezza necessaria per ribellarsi, per iniziare a vivere senza padroni. “Io lo sapevo che non era facile, che rischiavo tanto. Altre botte, forse di più. Ci vuole coraggio a scappare. Mi sono rivolta a Dio. Pensavo la vita non può essere questo schifo. Non può essere cosi brutta”.

“È qualcosa di brutto, che non si può neanche pensare”. Risalire la china è difficile. Safhia ci riesce, trova lavoro come domestica, poi in un ristorante. Poi conosce un uomo, Mitul, indiano, con regolare permesso di soggiorno. A Mitul racconta la sua vita passata, lui capisce, la sposa. Ma quando va in questura per chiedere il ricongiungimento familiare scopre che le sue ore in Italia sono contate. Pende su di lei un decreto di espulsione. La scadenza è al compimento del sesto mese di vita del bambino. Manuele è arrivato all’improvviso. “È successo una mattina, in bagno, ho visto il sangue, le acque che scorrevano, avevo tanta paura. Sono corsa in ospedale, è cominciato un vero delirio”. La diagnosi è pesantissima. Manuele potrebbe morire da un momento all’altro. Il suo piccolo cuore è provato, ogni attimo di vita è una speranza. Safhia continua a pregare e tutti i giorni, tutto il giorno, rimane vicino a Manuele, a toccarlo, ad accarezzarlo, a dargli la forza di vivere, mentre il corpicino è avvolto dai tubi e guardato a vista dai medici. Alla fine il piccolo esce dall’ospedale. Ora ha sei mesi, pesa poco più che cinque chili.

Quella che segue è la lotta del Salvamamme per farla rimanere in Italia, perché Manuele morirebbe senza di lei, perché Manuele non potrebbe avere le cure di cui ha bisogno in Africa. Safhia è disperata, urla finalmente la sua disperazione, quel dolore cupo che non è riuscito a esternare in tanti giorni di lotta e di attesa. Sempre chiusa in se stessa, con quel lampo negli occhi, vigile, come chi deve perennemente guardarsi alle spalle. “Nessuno mi ha mai amato, nessuno mi ama, è una vita di schifo e di dolore la mia…”. ☺

morenavaccaro2@virgilio.it

 

 

 

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