Denunciare i meccanismi perversi di un’economia sempre più a favore dei ricchi e a svantaggio dei poveri; combattere le strutture di peccato che allargano sempre più il divario tra un occidente opulente e un sud del mondo sempre più impoverito; impegnarsi a favore dell’uomo sapendo che l’atto del “dare” non è gesto caritatevole ma bisogno di restituzione; vivere sulla propria pelle il patos della parola di Dio che ci riporta alla realizzazione del sogno di Dio, cioè un’economia di ridistribuzione frutto di una politica di giustizia che ha come garante Dio, diventa per il cristiano l’imperativo teologico. Ed è su questo comando (amare Dio sopra ogni cosa e amare il fratello come se stesso) cha ha fondamento il nostro essere cristiani… altrimenti i nostri battesimi diventano riti magici, la nostra religione oppio delle menti, la nostra vita una rappresentazione teatrale.
Se vi è, quindi, una parola che incessantemente ha bisogno di nuova interpretazione, sicuramente è la parola carità. Questo perché la sua traduzione in gesti concreti deve inesorabilmente, per essere reale, rapportarsi ai cambiamenti sociali, ai nuovi interrogativi politici, alle sfide culturali. Questo è il motivo per cui la carità è sempre a rischio di non essere il nucleo centrale della fede.
Molto spesso per carità si intende l’assistenzialismo, gesti occasionali, elemosine spicciole, qualcosa che riguarda la sfera della vita privata e non quella sociale ed ecclesiale. Troppo spesso gesti concreti di carità si ripiegano all’interno di comunità autistiche che si dicono cristiane ma che non sono capaci di uscire dal perbenismo dell’isola felice.
Si rischia di “fare carità”, ci si limita a dare del superfluo, a pulirsi la crassa coscienza benestante del superficiale atto dell’elargire denaro. Ma carità non è questo. Carità è la chiave ermeneutica dell’evento Gesù Cristo è ciò che dà “forma” all’essere cristiano. Quindi impegnativa per i singoli e per la comunità. Se è stato l’amore e l’attenzione agli ultimi a caratterizzare la vita di Gesù, per noi che ci diciamo cristiani non può essere altrimenti. L’opzione fondamentale per i poveri non è uno dei tanti precetti per vivere il Vangelo ma è “l’abito” del seguace di Cristo, cioè la sua morale.
Fin quando la morale cattolica è presentata con categorie giuridiche, minimaliste e leghiste, l’immagine del credente sarà sempre legata alla sua attività sessuale e alla sua pratica liturgica.
Allora è facilmente spiegabile come sia possibile affermare che la scelta preferenziale per i poveri sia solo dottrina sociale della Chiesa e non il punto di partenza per comprendere e vivere il Vangelo, e che temi come giustizia e pace siano solo aspetti marginali della nostra fede e non il nucleo centrale su cui costruire il Regno di Dio.
Allora si è giustificati se il nostro essere uomini e donne di carità si spinge solo fino ad un certo punto, oltre no.
Secondo le scritture invece la carità tutto compendia, tutto riassume ed è il segno di riconoscimento dei discepoli oltre ad essere l’unica nota decisiva della salvezza perché su di essa saremo giudicati: da Dio e dalla storia.È evidente quindi che i diversi modi di intendere la parola “carità” induce prassi diverse. Come credenti siamo immersi nella fiumara della storia, siamo soggetti a notevoli mutamenti culturali e sociali. Dobbiamo saper cogliere e leggere costantemente i segni dei tempi per servire il Cristo nei poveri, per celebrare il Cristo dei poveri, per farci annunciare dai poveri la buona novella. Perché come Cristo è il sacramento di Dio, così i poveri sono il sacramento di Cristo per noi. ☺
Denunciare i meccanismi perversi di un’economia sempre più a favore dei ricchi e a svantaggio dei poveri; combattere le strutture di peccato che allargano sempre più il divario tra un occidente opulente e un sud del mondo sempre più impoverito; impegnarsi a favore dell’uomo sapendo che l’atto del “dare” non è gesto caritatevole ma bisogno di restituzione; vivere sulla propria pelle il patos della parola di Dio che ci riporta alla realizzazione del sogno di Dio, cioè un’economia di ridistribuzione frutto di una politica di giustizia che ha come garante Dio, diventa per il cristiano l’imperativo teologico. Ed è su questo comando (amare Dio sopra ogni cosa e amare il fratello come se stesso) cha ha fondamento il nostro essere cristiani… altrimenti i nostri battesimi diventano riti magici, la nostra religione oppio delle menti, la nostra vita una rappresentazione teatrale.
Se vi è, quindi, una parola che incessantemente ha bisogno di nuova interpretazione, sicuramente è la parola carità. Questo perché la sua traduzione in gesti concreti deve inesorabilmente, per essere reale, rapportarsi ai cambiamenti sociali, ai nuovi interrogativi politici, alle sfide culturali. Questo è il motivo per cui la carità è sempre a rischio di non essere il nucleo centrale della fede.
Molto spesso per carità si intende l’assistenzialismo, gesti occasionali, elemosine spicciole, qualcosa che riguarda la sfera della vita privata e non quella sociale ed ecclesiale. Troppo spesso gesti concreti di carità si ripiegano all’interno di comunità autistiche che si dicono cristiane ma che non sono capaci di uscire dal perbenismo dell’isola felice.
Si rischia di “fare carità”, ci si limita a dare del superfluo, a pulirsi la crassa coscienza benestante del superficiale atto dell’elargire denaro. Ma carità non è questo. Carità è la chiave ermeneutica dell’evento Gesù Cristo è ciò che dà “forma” all’essere cristiano. Quindi impegnativa per i singoli e per la comunità. Se è stato l’amore e l’attenzione agli ultimi a caratterizzare la vita di Gesù, per noi che ci diciamo cristiani non può essere altrimenti. L’opzione fondamentale per i poveri non è uno dei tanti precetti per vivere il Vangelo ma è “l’abito” del seguace di Cristo, cioè la sua morale.
Fin quando la morale cattolica è presentata con categorie giuridiche, minimaliste e leghiste, l’immagine del credente sarà sempre legata alla sua attività sessuale e alla sua pratica liturgica.
Allora è facilmente spiegabile come sia possibile affermare che la scelta preferenziale per i poveri sia solo dottrina sociale della Chiesa e non il punto di partenza per comprendere e vivere il Vangelo, e che temi come giustizia e pace siano solo aspetti marginali della nostra fede e non il nucleo centrale su cui costruire il Regno di Dio.
Allora si è giustificati se il nostro essere uomini e donne di carità si spinge solo fino ad un certo punto, oltre no.
Secondo le scritture invece la carità tutto compendia, tutto riassume ed è il segno di riconoscimento dei discepoli oltre ad essere l’unica nota decisiva della salvezza perché su di essa saremo giudicati: da Dio e dalla storia.È evidente quindi che i diversi modi di intendere la parola “carità” induce prassi diverse. Come credenti siamo immersi nella fiumara della storia, siamo soggetti a notevoli mutamenti culturali e sociali. Dobbiamo saper cogliere e leggere costantemente i segni dei tempi per servire il Cristo nei poveri, per celebrare il Cristo dei poveri, per farci annunciare dai poveri la buona novella. Perché come Cristo è il sacramento di Dio, così i poveri sono il sacramento di Cristo per noi. ☺
Denunciare i meccanismi perversi di un’economia sempre più a favore dei ricchi e a svantaggio dei poveri; combattere le strutture di peccato che allargano sempre più il divario tra un occidente opulente e un sud del mondo sempre più impoverito; impegnarsi a favore dell’uomo sapendo che l’atto del “dare” non è gesto caritatevole ma bisogno di restituzione; vivere sulla propria pelle il patos della parola di Dio che ci riporta alla realizzazione del sogno di Dio, cioè un’economia di ridistribuzione frutto di una politica di giustizia che ha come garante Dio, diventa per il cristiano l’imperativo teologico. Ed è su questo comando (amare Dio sopra ogni cosa e amare il fratello come se stesso) cha ha fondamento il nostro essere cristiani… altrimenti i nostri battesimi diventano riti magici, la nostra religione oppio delle menti, la nostra vita una rappresentazione teatrale.
Se vi è, quindi, una parola che incessantemente ha bisogno di nuova interpretazione, sicuramente è la parola carità. Questo perché la sua traduzione in gesti concreti deve inesorabilmente, per essere reale, rapportarsi ai cambiamenti sociali, ai nuovi interrogativi politici, alle sfide culturali. Questo è il motivo per cui la carità è sempre a rischio di non essere il nucleo centrale della fede.
Molto spesso per carità si intende l’assistenzialismo, gesti occasionali, elemosine spicciole, qualcosa che riguarda la sfera della vita privata e non quella sociale ed ecclesiale. Troppo spesso gesti concreti di carità si ripiegano all’interno di comunità autistiche che si dicono cristiane ma che non sono capaci di uscire dal perbenismo dell’isola felice.
Si rischia di “fare carità”, ci si limita a dare del superfluo, a pulirsi la crassa coscienza benestante del superficiale atto dell’elargire denaro. Ma carità non è questo. Carità è la chiave ermeneutica dell’evento Gesù Cristo è ciò che dà “forma” all’essere cristiano. Quindi impegnativa per i singoli e per la comunità. Se è stato l’amore e l’attenzione agli ultimi a caratterizzare la vita di Gesù, per noi che ci diciamo cristiani non può essere altrimenti. L’opzione fondamentale per i poveri non è uno dei tanti precetti per vivere il Vangelo ma è “l’abito” del seguace di Cristo, cioè la sua morale.
Fin quando la morale cattolica è presentata con categorie giuridiche, minimaliste e leghiste, l’immagine del credente sarà sempre legata alla sua attività sessuale e alla sua pratica liturgica.
Allora è facilmente spiegabile come sia possibile affermare che la scelta preferenziale per i poveri sia solo dottrina sociale della Chiesa e non il punto di partenza per comprendere e vivere il Vangelo, e che temi come giustizia e pace siano solo aspetti marginali della nostra fede e non il nucleo centrale su cui costruire il Regno di Dio.
Allora si è giustificati se il nostro essere uomini e donne di carità si spinge solo fino ad un certo punto, oltre no.
Secondo le scritture invece la carità tutto compendia, tutto riassume ed è il segno di riconoscimento dei discepoli oltre ad essere l’unica nota decisiva della salvezza perché su di essa saremo giudicati: da Dio e dalla storia.È evidente quindi che i diversi modi di intendere la parola “carità” induce prassi diverse. Come credenti siamo immersi nella fiumara della storia, siamo soggetti a notevoli mutamenti culturali e sociali. Dobbiamo saper cogliere e leggere costantemente i segni dei tempi per servire il Cristo nei poveri, per celebrare il Cristo dei poveri, per farci annunciare dai poveri la buona novella. Perché come Cristo è il sacramento di Dio, così i poveri sono il sacramento di Cristo per noi. ☺
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