sulla morte e sull’amore
21 Marzo 2010 Share

sulla morte e sull’amore

 

A volte l’amore può portare alla morte… la mente corre subito a Paolo e Francesca (Divina Commedia, Inferno, Canto V), o a Romeo e Giulietta di Shakespeare. Invece noi, nell’odierno intervento, vogliamo parlare di Eluana Englaro e dell’amore di un padre, mosso dalla pietas verso la figlia e dalla volontà di salvaguardarne la dignità, per troppo tempo offesa da inopinate ed ingiustificate prese di posizione.

Ebbene, si è detto che la vita non può essere tolta dall’uomo e che essa va conservata, perché, anche se indegna di qualificarsi come tale (vita), va comunque vissuta. Ora, a parte la elementare considerazione che quella di Eluana Englaro non era una vita, ma solo il prolungamento dell’agonia di un corpo, senza senso, poiché non vi era nemmeno l’”onore” del dolore, dato lo stato vegetativo permanente in atto da diciassette anni, si intende qui lumeggiare alcune riflessioni derivate dagli interminabili dibattiti fioriti sul caso di Eluana e da ciò che la personale coscienza di chi scrive ha elaborato, sia sul piano tecnico-giuridico, sia sul piano più squisitamente umano.

Ebbene, una domanda, da credenti, ci poniamo: se la vita è un dono del Signore, se in ogni caso va fatta la volontà del Signore e se è vero che dopo la morte si torna dal Signore, perché la Chiesa ha montato una crociata contro l’istanza di interruzione delle cure ad Eluana, attaccando il padre con toni da guerra santa? Se Eluana, senza le terapie praticatele dall’uomo, non poteva vivere, significava che la volontà del Signore era che Eluana morisse e, quindi, l’accanimento di coloro che volevano tenerla in vita era contraria alla volontà di Dio, atteso che, per sua natura, Eluana sarebbe morta. Mi sembra che tali deduzioni siano il logico corollario delle tesi sostenute da taluni cattolici.

Ciò fa da sfondo all’esame del caso concreto, che consente di individuare con facilità quali sono i diritti coinvolti, di natura bioetica e di primario rilievo costituzionale.

Una giovane donna da diciassette anni si trovava in stato vegetativo permanente e veniva tenuta in vita mediante un sondino naso-gastrico che provvedeva alla sua idratazione e nutrizione, non avendo alcuna capacità di relazionarsi col mondo esterno né alcuna autonomia fisica o psichica. Il suo mantenimento in vita era garantito esclusivamente dalla idratazione e nutrizione artificiale, in mancanza dei quali la morte sarebbe sopraggiunta in pochissimi giorni. Il padre, divenuto tutore dopo la dichiarazione di interdizione della figlia, richiede un ordine di interruzione dell’alimentazione forzata, ritenendo di esprimere integralmente la volontà della propria figlia che non avrebbe scelto, ove ne avesse avuto la possibilità, di continuare a sopravvivere in quella condizione senza alcuna consapevolezza della prosecuzione dell’esistenza. La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su una sentenza favorevole della Corte D’Appello di Milano, ha stabilito che, nel conflitto tra il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla vita, nel caso in cui un malato si trovi in una condizione di coma irreversibile, non possa in alcun modo relazionarsi con mondo esterno e sia alimentato e idratato mediante un sondino, il giudice, su richiesta del tutore e nel contraddittorio con il curatore speciale, può autorizzare la disattivazione del presidio sanitario quando lo stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcuna possibilità di recupero o di ripresa anche minima di percezione del mondo esterno secondo gli standards scientifici riconosciuti a livello internazionale e solo se tale richiesta sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti dell’idea che il paziente aveva maturato sulla dignità della vita e sul suo livello minimo di vivibilità, da desumersi da sue precedenti dichiarazioni o dalla personalità, dai valori di riferimento, dal complessivo stile di vita adottato fino alla perdita di capacità.

Sulla base di tali assunti la Corte accoglieva in via definitiva la domanda del padre di Eluana. Tuttavia, il Governo cercava di intervenire con atto normativo al fine di porre nel nulla detta sentenza, contravvenendo ad un principio fondamentale del nostro ordinamento in virtù del quale non si può incidere con legge o atti ad essa equiparati (decreti legge e decreti legislativi) su provvedimenti giudiziari passati in giudicato, come in questo caso si stava tentando di fare per accontentare i soliti “gruppi di potere”, non certo per un principio meritevole di tutela.

Invece la Cassazione ha detto che il supplizio cui era sottoposto il corpo di Eluana – ormai completamente deturpato – e la tortura psicologica e morale dei suoi familiari potevano bastare e, poco dopo l’interruzione dell’alimentazione forzata, Eluana si è spenta.

Basta quindi con gli sguardi non sempre discreti degli estranei sulle membra inermi di Eluana. Basta con le dichiarazioni sterili e intimamente contraddittorie di alcuni rappresentanti della Chiesa e della politica. Basta con l’arricchimento della case farmaceutiche. Basta con l’accanimento terapeutico e basta con l’accanimento vessatorio su un padre che, anziché vedersi sostenuto e sorretto dalle istituzioni nella sua lotta di amore e civiltà giuridica si è visto attaccare con una violenza che non abbiamo mai visto nemmeno verso i generali delle SS.

E almeno adesso tutti coloro che hanno puntato il dito contro di lui, profittando di questa storia per sbandierare preconcetti triti e ritriti o strumentalizzando la questione per raggiungere altri obiettivi, tacciano e, per una volta, si vergognino. ☺

marx73@virgilio.it 

 

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