‘u dàf’ne
18 Aprile 2010 Share

‘u dàf’ne

 

“Mama, che cos’è quell’erbetta con la capolina in giù?”, chiedeva alla madre un giovane militare tornato in licenza, forse più per fare sfoggio del suo italiano con accento nordico che per l’effettiva necessità di conoscere il nome della pianta. La mamma, premurosa di dare una risposta, si sforzava di citare alcuni nomi delle piante più comuni. “Fusse ’a sprajne?”. “No, mama! Mai più!”. “Fusse ’u chešigne?”. “No, mama! Mai più!”. “Fusse ’u dàf’ne?”. “Sì, mama!”. “Che te pozz’ne eccide! Pè tu te si fatte ròsse ch’u dàf’ne!”.

Questo divertente aneddoto, diffuso nei paesi limitrofi per prendere in giro i bonefrani vissuti per un periodo fuori dal paese e poi rientrati, testimonia il largo uso che ’u dàf’ne aveva in passato nella nostra alimentazione. Per anni ’i dàf’ne hanno rappresentato anche un buon accompagnamento al vino per gli assidui frequentatori delle bettole, ’i chendine, una volta numerose nei piccoli paesi. Erano una valida alternativa ad una scorza di caše de quagghie (cacio bacato con le larve della mosca del formaggio) per tracannare e gustare il sospirato ed ennesimo bicchiere di vino bevuto da solo o più spesso in compagnia di amici.

Tamaro è il suo nome italiano e Tamus communis L. quello scientifico, ma è conosciuto anche con i nomi volgari di vite nera oppure uva tannina. Il tamaro appartiene alla famiglia delle Dioscoreacee insieme ad altre 650 specie circa, distribuite soprattutto nelle regioni tropicali, ma è l’unica specie presente nella flora italiana. Facilmente reperibili in tutto il nostro territorio, i tamari erano ben visibili nei campi di grano dove emergevano e si distinguevano da lontano almeno fino a quando la coltura del cereale non raggiungeva altezze più elevate. Oggi nei terreni coltivati sono pressoché scomparsi per via delle lavorazioni profonde che si sono ottenute con la meccanizzazione. Si trovano comunque in abbondanza nei terreni incolti e ai margini dei boschi.

Pianta erbacea perenne, lianosa, rampicante, dal fusto volubile con foglie lucenti a forma di cuore, si attorciglia intorno al fusto di altre piante lasciando pendere la parte apicale. Alla base si trova un grosso tubero che ogni anno emette nuovi germogli i quali possono raggiungere il mezzo centimetro di diametro e superare anche i 2-3 metri di altezza. A questa caratteristica si ispira il detto “pare ’u dàf’ne mal’còtte”, ovvero “sembra un tamaro cotto male”, che si dice di chi è alto, magro e sfinito. La pianta è molto appariscente a fine estate, quando giungono a maturazione i suoi frutti, bacche dal diametro di un centimetro, di cui merli e tordi sono ghiotti, e che assumono una colorazione rosso fiammante. È assolutamente necessario mettere in guardia i bambini perché queste bacche, che possono essere confuse con il ribes rosso, sono pericolosissime. Anche le radici carnoso-tuberose, se consumate crude, sono molto tossiche.

Nella tradizione popolare il tamaro era antinfiammatorio e antifebbrile. Per questo motivo, negli anni passati, questa pianta è stata oggetto di studio da parte di alcuni ricercatori presso la facoltà di Farmacia dell’Università di Napoli (Cattedra di Fitofarmacia). Dall’analisi delle proprietà della pianta è emersa una interessantissima scoperta: il tamaro è ricco di “diosgenina”, una delle materie basilari per la sintesi chimica del cortisone. Se aggiungiamo poi che contiene anche gli “steroli”, una specie di cortisone vegetale, si può comprendere la portata dell’importanza del tamaro che potrebbe costituire una autentica rivoluzione in campo farmaceutico anche perché i suoi poteri terapeutici sono superiori a quelli del farmaco ottenuto per sintesi chimica. Inoltre i suoi principi attivi dovrebbero costituire un “toccasana” per la cellulite. In passato era utilizzato come pianta officinale anche nella terapia dell’alopecia, dei reumatismi e delle contusioni.

Le parti della pianta che vengono utilizzate nell’alimentazione sono l’estremità del fusto e le infiorescenze. Mangiare sano per vivere bene, ch’u dàf’ne si può: si prendono 500 grammi di germogli di tamaro, si passano velocemente in acqua bollente, si scolano, si pongono ordinatamente in un piatto di portata, si spolverizzano con pangrattato, sale e pepe verde schiacciato, si condiscono con un filo d’olio extravergine di oliva e con succo di limone e si gustano.

 

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