voleva danzare
26 Marzo 2010 Share

voleva danzare

 

Dalila vive in una roulotte, ma non in un campo rom. Anzi, si tiene lontana dai suoi connazionali e dal suo popolo, come se ci fosse una linea netta e sicura tra lei ed il resto del mondo. La casetta mobile, arredata perfettamente come un monolocale, è in campagna, protetta da un cancello, lontana da tutto, chiusa ad italiani e stranieri, invalicabile. Nel piccolo giardino, ricolmo a metà di oggetti, carrozzine, giochi e vecchi materassi c’è un minicampo giochi, altalena e scivolo di plastica. In pratica è un abbozzo di abitazione, ma è comunque utile quando piove o fa molto freddo, come spiega Dalila, per riparare i bambini. Già, i bambini. Ne hanno sempre così tanti i rom. Loro sono in quattro, a scaletta. Arrivano di corsa, quando entriamo nel vialetto con la mamma-mobile (la macchina del Salvamamme), cariche di pacchi, doni e generi di prima necessità. La più grande è quasi un’adolescente e si è assunta l’onere di badare ai fratellini. Ha un bel viso, pulito e sereno, e parla, parla continuamente, si sente grande e vuole dimostrarlo. “Sono la donna di casa”, dice spavaldamente, ed è la verità. Quando Dalila va a chiedere l’elemosina in strada, è lei a seguire i bambini, cambiare i pannolini, gestire la casa, le pulizie e la preparazione del cibo. I piccolini pendono dalle sue labbra e la guardano affascinati. Hanno sei e tre anni. L’ultima nata, cinque mesi. È lei che la tiene in braccio.

La sua mamma è bella, di una grazia leggera, ma dimostra molto più dei suoi ventisette anni. La spiegazione è tutta in una foto, che mostra religiosamente, come se fosse il suo intero mondo. “Questa è Sandra, oggi avrebbe nove anni. Sarebbe bellissima”. Le mani le tremano leggermente, mentre estrae dalla piccola valigia di carta, un po’ rovinata, i vestiti della bambina che conserva religiosamente, come se fosse ancora viva. Il suo racconto, giocato sul filo dei silenzi e delle parole, sulla scia delle lacrime e della voglia di dire, è emozionante e coinvolgente. “Ballavamo insieme noi, sai, la danza del ventre. La sera ci mettevamo nel giardino, indossavamo scialli colorati sui fianchi, seguivamo la musica con grazia. Glielo avevo insegnato io a muoversi seguendo il ritmo. Lei era eccezionale, bravissima, una piccola odalisca. Era nata per ballare. Un amore, mio marito l’adorava, era pazzo di lei. Da quando è morta, da quella sera, non è stato più lo stesso. Lo vedi questo quaderno?”, mi mostra una serie di fogli scritti a mano. “Sono le poesie che le scrive lui, la sera. Si mette in giardino, guarda la luna, piange e scrive. La chiamava la mia principessa. Dice che lei gli assomigliava. Erano uguali, fisicamente ma anche come carattere. Adesso, da quando Sandra non c’è più, è diventato come matto. Non si è più nemmeno tagliato la barba. Da noi, per un anno, si usa così in segno di lutto. Ma adesso sono passati due anni e mezzo dall’incidente. Sembra un barbone, un matto. Ogni tanto scompare”.

E si guarda intorno, mentre contorce le mani e si sforza di non piangere. “Noi non rubiamo, viviamo di elemosina e qualche lavoretto. Mio marito lavorava, faceva il muratore, quello che capitava. Era bravo. Poi quella sera. Eravamo in macchina, dietro c’era- no i bambini. Eravamo quasi arrivati a Civitavecchia quando è iniziata una maledetta discesa. È spuntata quell’auto. Non l’avevamo vista, non si è fermata allo stop. È arrivata come un razzo”. Ed ora piange Dalila, ricorda il corpo di sua figlia, sbalzato dal vetro, rotolato per terra. “La chiamavo, lei non rispondeva. Era sempre così allegra, piena di vita. Una principessa, e ballava così bene. Voleva danzare, da grande. Un attimo e non c’era più. Paolino, il fratello, era abbracciato a lei, ma respirava ancora. L’hanno portato in ospedale. L’hanno operato. Ma io non capivo niente. Pensavo solo a Sandra. Si è portata via tutto”. Il lutto, il dolore, sono entrati nella roulotte dove niente è stato più come prima. Mai più danza del ventre, mai più televisione, musica o radio. “Sandra è sempre con noi, ma noi non possiamo essere con lei, coccolarla, proteggerla, vederla. Ed io a volte penso a questi altri figli. La piccolina è nata dopo. Come se fosse lei che era tornata. L’abbiamo chiamata Sandra, però io non ce la faccio. Ogni volta che devo dire il suo nome mi fermo e penso a sua sorella. Così gliel’ho cambiato, adesso lei è Sara. Speravamo che Sandra tornasse con lei, ma niente torna. Mai più. Ma il problema vero però ora è mio marito. Non so come aiutarlo”.

Due tentati suicidi, un progressivo abbandono alla vita e della forza maschile, per il marito di Dalila lo strazio non è mai finito. “Spesso scompare, ai bambini dico sempre che è in giro, a cercare Sandra. Loro pure soffrono. La sorella non c’è più. Ogni tanto piangiamo insieme. Ogni tanto spero che l’abbiano dimenticata. Sono piccoli, ce la faranno. Certo non hanno avuto niente da questa vita”.

“La nostra vita, la vita di tutti qui si è fermata quel giorno. Io vivo solo per ritrovarla, riabbracciarla, per poter ballare di nuovo con lei”. E mentre si allontana con il suo passo stanco ed indolente, si avvicina Olga, la maggiore, con la sua aria da donnina matura. “La scrivi una cosa per me? Tutti dicono che noi rom siamo ladri e sporchi, che non ci laviamo e che siamo un pericolo. Ci allontanano come se fossimo dei mostri. Zingari, con i pidocchi nei capelli e le piaghe sul corpo. Quando andavo a scuola ero sempre sola. Ma nessuno è uguale ad un altro. Abbiamo tanto da dare e da imparare, anche noi. Lo sai, io vorrei solo essere un po’ più italiana. Ti prego, lo scrivi tu per me?”.☺

 morenavaccaro2@virgilio.it

 

 

 

eoc

eoc