Cosa è il potere? Come lo si ottiene? Come lo si perpetua? Che cosa ci si fa? Perché lo si vuole?
Nel XXI secolo per rispondere bisogna abbandonare schemi ormai vetusti. Usualmente si tendeva ad identificare il potere con “cose”, più o meno tangibili. La ricchezza, una determinata posizione sociale, la capacità (o l’opportunità) di usare violenza coercitiva, la possibilità di plasmare il pensiero o di acquisire informazioni in maniera asimmetrica. Oggi è invalsa la pratica di assimilare il potere alla “capacità di dettare l’agenda” – un’espres- sione tanto affascinante quanto, di per sé, ambigua. Ognuna di esse, però, richiama alla mente più le fonti cui si attinge potere che non il potere stesso. Risulta, poi, ugualmente difficile stabilirvi una misura (quantitativa e oggettiva). In un ambito locale una determinata quantità di ricchezza può corrispondere a un certo grado di potere, ma, in un contesto più ampio (nazionale o globale), siamo sicuri che valga altrettanto?
Già preside della Kennedy School of Governement, Joseph Nye jr. è uno dei più importanti scienziati della politica e la sua fama lo ha portato a rivestire incarichi di responsabilità nelle passate amministrazioni americane e a essere tuttora un intellettuale molto influente. Per analizzare la natura sfuggente e mutevole del potere, ha proposto le categorie di soft e hard power che ben ne riassumono le due dimensioni. Come Machiavelli aveva infatti intuito sin dal Rinascimento, sono due gli spettri di comportamento con cui il Principe si rapporta ai suoi sudditi: l’essere amato o temuto. Entrambi sottintendono un certo grado di “manipolazione” dell’opinione e quindi dell’informazione che il suddito riceve e elabora. Il potere è, così, definibile su un piano dinamico oltre che statico (le fonti, cui si accennava prima), identificandolo cioè con la possibilità concreta di fare materialmente qualcosa su qualcuno o di influenzarne indirettamente il comportamento al fine di ottenere i risultati auspicati. In questo spettro rientrano il comando, l’influenza senza comando, la relazione che si instaura con l’esecutore, il contesto in cui tale relazione si estrinseca. La componente statica, invece, racchiude il possesso fisico e materiale di quelle fonti o risorse che consentono di influenzare o comandare. Pur avendo il pregio della maggior concretezza, queste non sono auto – sufficienti, ma necessitano di “esser messe in movimento”, attraverso strategie di impiego, per ottenere quegli esiti che il loro semplice possesso all’apparenza garantirebbe. Le risorse, inoltre, hanno una loro distribuzione autonoma con cui l’intervento coercitivo deve fare i conti. La politica mondiale – è l’esempio che fa Nye – va paragonata a una scacchiera tridimensionale in cui, al piano superiore, c’è l’ambito militare, in quello intermedio, le dinamiche economiche, in quello inferiore le questioni transnazionali. In ognuna di queste il potere è distribuito in maniera diseguale, non solo al suo interno, ma anche fra i diversi piani, rispetto ai quali l’occhio dell’analista non può essere miope. Inoltre – e qui entrano le categorie del politologo – la stessa natura del potere è concettualmente differente sui diversi piani. I pagamenti, le transazioni e le relazioni economiche (anche “informali”), l’uso (o la minaccia) della forza piuttosto che delle sanzioni rientrano in quello spettro di comportamenti che chiama in causa il comando nella sua declinazione più hard di coercizione o diretta induzione. Quando, invece, si parla di questioni transnazionali ci si riferisce anche a quella gamma di valori, cultura, politiche (interne ed esterne) che si concretizzano in istituzioni, ma senza la “durezza” della moneta o delle armi. In quest’ambito non è il comando ad essere metro di efficacia, ma la capacità di attrarre, di cooptare, di far sì che ci sia unità di intenti e conformazione di volontà. Qui non servono mezzi solidi, qui serve il soft power. Nelle parole di Nye, «la capacità di ottenere ciò che si vuole tramite la propria attrattiva piuttosto che per coercizione o compensi in denaro». Su questo piano la vera forza risiede nella credibilità e nella legittimità che un soggetto riesce ad acquisire mediante la messa in pratica della propria visione. È sulla conformità fra valori e pratiche (politiche o istituzionali) che ci si gioca la propria partita.
Evidentemente nessuna delle due tipologie di potere può essere intrinsecamente buona (o cattiva) e ciascuna ha i suoi propri limiti. Il soft power, ad esempio, è fortemente dipendente dalla comprensione del contesto in cui va a operare. L’attrattiva, infatti, ha bisogno di condizioni opportune per poter essere efficace, né può essere insensibile alla distribuzione delle risorse di potere che si trova innanzi. In aggiunta, essa va a incidere sugli obiettivi più generali, mentre nelle questioni di piccolo cabotaggio è pressoché impotente, essendo rivolta al medio – lungo termine. Di conseguenza un “potere intelligente (smart power)” non potrà coincidere né con l’uno né con l’altro, ma dovrà essere una combinazione creativa e adattiva di fattori hard e soft. A maggior ragione, in un ambiente in cui l’informazione si diffonde globalmente e iper – velocemente e i centri del potere tendono a orientarsi in direzione poliarchica e policentrica.
Stando così le cose, potrebbe essere una buona sintesi definire il potere – nel suo senso generale – come la capacità resultativa di guidare (condurre) altri soggetti verso un certo obiettivo coerente coi propri principi, utilizzando mezzi e pratiche dirette e indirette, solide o leggere, a seconda del contesto. Non sarà un caso, allora, che Joseph Nye jr sviluppa il concetto di soft power proprio in un libro intitolato Bound to Lead. ☺
edoardo.lamedica@gmail.com
Cosa è il potere? Come lo si ottiene? Come lo si perpetua? Che cosa ci si fa? Perché lo si vuole?
Nel XXI secolo per rispondere bisogna abbandonare schemi ormai vetusti. Usualmente si tendeva ad identificare il potere con “cose”, più o meno tangibili. La ricchezza, una determinata posizione sociale, la capacità (o l’opportunità) di usare violenza coercitiva, la possibilità di plasmare il pensiero o di acquisire informazioni in maniera asimmetrica. Oggi è invalsa la pratica di assimilare il potere alla “capacità di dettare l’agenda” – un’espres- sione tanto affascinante quanto, di per sé, ambigua. Ognuna di esse, però, richiama alla mente più le fonti cui si attinge potere che non il potere stesso. Risulta, poi, ugualmente difficile stabilirvi una misura (quantitativa e oggettiva). In un ambito locale una determinata quantità di ricchezza può corrispondere a un certo grado di potere, ma, in un contesto più ampio (nazionale o globale), siamo sicuri che valga altrettanto?
Già preside della Kennedy School of Governement, Joseph Nye jr. è uno dei più importanti scienziati della politica e la sua fama lo ha portato a rivestire incarichi di responsabilità nelle passate amministrazioni americane e a essere tuttora un intellettuale molto influente. Per analizzare la natura sfuggente e mutevole del potere, ha proposto le categorie di soft e hard power che ben ne riassumono le due dimensioni. Come Machiavelli aveva infatti intuito sin dal Rinascimento, sono due gli spettri di comportamento con cui il Principe si rapporta ai suoi sudditi: l’essere amato o temuto. Entrambi sottintendono un certo grado di “manipolazione” dell’opinione e quindi dell’informazione che il suddito riceve e elabora. Il potere è, così, definibile su un piano dinamico oltre che statico (le fonti, cui si accennava prima), identificandolo cioè con la possibilità concreta di fare materialmente qualcosa su qualcuno o di influenzarne indirettamente il comportamento al fine di ottenere i risultati auspicati. In questo spettro rientrano il comando, l’influenza senza comando, la relazione che si instaura con l’esecutore, il contesto in cui tale relazione si estrinseca. La componente statica, invece, racchiude il possesso fisico e materiale di quelle fonti o risorse che consentono di influenzare o comandare. Pur avendo il pregio della maggior concretezza, queste non sono auto – sufficienti, ma necessitano di “esser messe in movimento”, attraverso strategie di impiego, per ottenere quegli esiti che il loro semplice possesso all’apparenza garantirebbe. Le risorse, inoltre, hanno una loro distribuzione autonoma con cui l’intervento coercitivo deve fare i conti. La politica mondiale – è l’esempio che fa Nye – va paragonata a una scacchiera tridimensionale in cui, al piano superiore, c’è l’ambito militare, in quello intermedio, le dinamiche economiche, in quello inferiore le questioni transnazionali. In ognuna di queste il potere è distribuito in maniera diseguale, non solo al suo interno, ma anche fra i diversi piani, rispetto ai quali l’occhio dell’analista non può essere miope. Inoltre – e qui entrano le categorie del politologo – la stessa natura del potere è concettualmente differente sui diversi piani. I pagamenti, le transazioni e le relazioni economiche (anche “informali”), l’uso (o la minaccia) della forza piuttosto che delle sanzioni rientrano in quello spettro di comportamenti che chiama in causa il comando nella sua declinazione più hard di coercizione o diretta induzione. Quando, invece, si parla di questioni transnazionali ci si riferisce anche a quella gamma di valori, cultura, politiche (interne ed esterne) che si concretizzano in istituzioni, ma senza la “durezza” della moneta o delle armi. In quest’ambito non è il comando ad essere metro di efficacia, ma la capacità di attrarre, di cooptare, di far sì che ci sia unità di intenti e conformazione di volontà. Qui non servono mezzi solidi, qui serve il soft power. Nelle parole di Nye, «la capacità di ottenere ciò che si vuole tramite la propria attrattiva piuttosto che per coercizione o compensi in denaro». Su questo piano la vera forza risiede nella credibilità e nella legittimità che un soggetto riesce ad acquisire mediante la messa in pratica della propria visione. È sulla conformità fra valori e pratiche (politiche o istituzionali) che ci si gioca la propria partita.
Evidentemente nessuna delle due tipologie di potere può essere intrinsecamente buona (o cattiva) e ciascuna ha i suoi propri limiti. Il soft power, ad esempio, è fortemente dipendente dalla comprensione del contesto in cui va a operare. L’attrattiva, infatti, ha bisogno di condizioni opportune per poter essere efficace, né può essere insensibile alla distribuzione delle risorse di potere che si trova innanzi. In aggiunta, essa va a incidere sugli obiettivi più generali, mentre nelle questioni di piccolo cabotaggio è pressoché impotente, essendo rivolta al medio – lungo termine. Di conseguenza un “potere intelligente (smart power)” non potrà coincidere né con l’uno né con l’altro, ma dovrà essere una combinazione creativa e adattiva di fattori hard e soft. A maggior ragione, in un ambiente in cui l’informazione si diffonde globalmente e iper – velocemente e i centri del potere tendono a orientarsi in direzione poliarchica e policentrica.
Stando così le cose, potrebbe essere una buona sintesi definire il potere – nel suo senso generale – come la capacità resultativa di guidare (condurre) altri soggetti verso un certo obiettivo coerente coi propri principi, utilizzando mezzi e pratiche dirette e indirette, solide o leggere, a seconda del contesto. Non sarà un caso, allora, che Joseph Nye jr sviluppa il concetto di soft power proprio in un libro intitolato Bound to Lead. ☺
Cosa è il potere? Come lo si ottiene? Come lo si perpetua? Che cosa ci si fa? Perché lo si vuole?
Nel XXI secolo per rispondere bisogna abbandonare schemi ormai vetusti. Usualmente si tendeva ad identificare il potere con “cose”, più o meno tangibili. La ricchezza, una determinata posizione sociale, la capacità (o l’opportunità) di usare violenza coercitiva, la possibilità di plasmare il pensiero o di acquisire informazioni in maniera asimmetrica. Oggi è invalsa la pratica di assimilare il potere alla “capacità di dettare l’agenda” – un’espres- sione tanto affascinante quanto, di per sé, ambigua. Ognuna di esse, però, richiama alla mente più le fonti cui si attinge potere che non il potere stesso. Risulta, poi, ugualmente difficile stabilirvi una misura (quantitativa e oggettiva). In un ambito locale una determinata quantità di ricchezza può corrispondere a un certo grado di potere, ma, in un contesto più ampio (nazionale o globale), siamo sicuri che valga altrettanto?
Già preside della Kennedy School of Governement, Joseph Nye jr. è uno dei più importanti scienziati della politica e la sua fama lo ha portato a rivestire incarichi di responsabilità nelle passate amministrazioni americane e a essere tuttora un intellettuale molto influente. Per analizzare la natura sfuggente e mutevole del potere, ha proposto le categorie di soft e hard power che ben ne riassumono le due dimensioni. Come Machiavelli aveva infatti intuito sin dal Rinascimento, sono due gli spettri di comportamento con cui il Principe si rapporta ai suoi sudditi: l’essere amato o temuto. Entrambi sottintendono un certo grado di “manipolazione” dell’opinione e quindi dell’informazione che il suddito riceve e elabora. Il potere è, così, definibile su un piano dinamico oltre che statico (le fonti, cui si accennava prima), identificandolo cioè con la possibilità concreta di fare materialmente qualcosa su qualcuno o di influenzarne indirettamente il comportamento al fine di ottenere i risultati auspicati. In questo spettro rientrano il comando, l’influenza senza comando, la relazione che si instaura con l’esecutore, il contesto in cui tale relazione si estrinseca. La componente statica, invece, racchiude il possesso fisico e materiale di quelle fonti o risorse che consentono di influenzare o comandare. Pur avendo il pregio della maggior concretezza, queste non sono auto – sufficienti, ma necessitano di “esser messe in movimento”, attraverso strategie di impiego, per ottenere quegli esiti che il loro semplice possesso all’apparenza garantirebbe. Le risorse, inoltre, hanno una loro distribuzione autonoma con cui l’intervento coercitivo deve fare i conti. La politica mondiale – è l’esempio che fa Nye – va paragonata a una scacchiera tridimensionale in cui, al piano superiore, c’è l’ambito militare, in quello intermedio, le dinamiche economiche, in quello inferiore le questioni transnazionali. In ognuna di queste il potere è distribuito in maniera diseguale, non solo al suo interno, ma anche fra i diversi piani, rispetto ai quali l’occhio dell’analista non può essere miope. Inoltre – e qui entrano le categorie del politologo – la stessa natura del potere è concettualmente differente sui diversi piani. I pagamenti, le transazioni e le relazioni economiche (anche “informali”), l’uso (o la minaccia) della forza piuttosto che delle sanzioni rientrano in quello spettro di comportamenti che chiama in causa il comando nella sua declinazione più hard di coercizione o diretta induzione. Quando, invece, si parla di questioni transnazionali ci si riferisce anche a quella gamma di valori, cultura, politiche (interne ed esterne) che si concretizzano in istituzioni, ma senza la “durezza” della moneta o delle armi. In quest’ambito non è il comando ad essere metro di efficacia, ma la capacità di attrarre, di cooptare, di far sì che ci sia unità di intenti e conformazione di volontà. Qui non servono mezzi solidi, qui serve il soft power. Nelle parole di Nye, «la capacità di ottenere ciò che si vuole tramite la propria attrattiva piuttosto che per coercizione o compensi in denaro». Su questo piano la vera forza risiede nella credibilità e nella legittimità che un soggetto riesce ad acquisire mediante la messa in pratica della propria visione. È sulla conformità fra valori e pratiche (politiche o istituzionali) che ci si gioca la propria partita.
Evidentemente nessuna delle due tipologie di potere può essere intrinsecamente buona (o cattiva) e ciascuna ha i suoi propri limiti. Il soft power, ad esempio, è fortemente dipendente dalla comprensione del contesto in cui va a operare. L’attrattiva, infatti, ha bisogno di condizioni opportune per poter essere efficace, né può essere insensibile alla distribuzione delle risorse di potere che si trova innanzi. In aggiunta, essa va a incidere sugli obiettivi più generali, mentre nelle questioni di piccolo cabotaggio è pressoché impotente, essendo rivolta al medio – lungo termine. Di conseguenza un “potere intelligente (smart power)” non potrà coincidere né con l’uno né con l’altro, ma dovrà essere una combinazione creativa e adattiva di fattori hard e soft. A maggior ragione, in un ambiente in cui l’informazione si diffonde globalmente e iper – velocemente e i centri del potere tendono a orientarsi in direzione poliarchica e policentrica.
Stando così le cose, potrebbe essere una buona sintesi definire il potere – nel suo senso generale – come la capacità resultativa di guidare (condurre) altri soggetti verso un certo obiettivo coerente coi propri principi, utilizzando mezzi e pratiche dirette e indirette, solide o leggere, a seconda del contesto. Non sarà un caso, allora, che Joseph Nye jr sviluppa il concetto di soft power proprio in un libro intitolato Bound to Lead. ☺
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