Credente o meno, nessuno mette in discussione che novembre sia il mese dedicato al ricordo dei defunti. Un ricordo che, inevitabilmente, porta con sé una riflessione sul mistero centrale dell’esistenza umana.
La morte è al centro anche dell’opera di Marco Aurelio, con il quale la filosofia stoica ascese al trono imperiale. Nominato imperatore nel 161 d.C., Marco Aurelio affrontò le responsabilità della sua carica proprio grazie alla forza interiore che gli era garantita dalla filosofia assunta come norma di vita. Durante le campagne militari contro i barbari che cominciavano a minacciare l’impero romano, nel ritiro della sua tenda e strappando ore al riposo notturno, compose in greco un diario intimo in otto libri, tramandato con il titolo A se stesso (di solito reso in italiano con Ricordi o Pensieri).
In questo colloquio interiore in forma di aforismi – che rendono priva di continuità ma forse proprio per questo più affascinante la lettura -, ritorna quasi ossessivo il pensiero della morte: “Ogni azione, ogni parola, ogni pensiero devono essere ispirati dalla consapevolezza che da un momento all’altro potresti uscire dalla vita” (II 11, trad. di G. Cortassa).
Ma l’imperatore filosofo più volte ne esorcizza la paura. In primo luogo, richiamando la possibilità di trovare un rifugio nell’intelletto, che solo ci può procurare la tranquillità necessaria per affrontare una vita così fragile e precaria: “E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola cosa, a un’unica cosa: la filosofia” (II 17, trad. di E. Turolla). Inoltre, cercando di convincerci che la morte non sia un male, ma una legge di natura, una semplice trasformazione della materia, come diventare giovani e poi vecchi, oppure crescere, mettere i denti, la barba e poi i capelli bianchi: “Questo infinitesimale frammento di tempo, quindi, trascorrilo secondo natura e concludilo in serenità, come l’oliva che, ormai matura, cadesse lodando la terra che l’ha prodotta e ringraziando l’albero che l’ha generata” (IV 48, trad. di E. V. Maltese).
Riflessioni amare e disincantate, ma la cui suggestione appare ancora più profonda perché nata dalla coscienza che anche l’imperatore, come l’ultimo degli schiavi, deve fronteggiare la paura della morte. Per questo Marco Aurelio è tra i più grandi e originali scrittori antichi, amico e confidente del lettore di tutti i tempi.
Filomena Giannotti
Credente o meno, nessuno mette in discussione che novembre sia il mese dedicato al ricordo dei defunti. Un ricordo che, inevitabilmente, porta con sé una riflessione sul mistero centrale dell’esistenza umana.
La morte è al centro anche dell’opera di Marco Aurelio, con il quale la filosofia stoica ascese al trono imperiale. Nominato imperatore nel 161 d.C., Marco Aurelio affrontò le responsabilità della sua carica proprio grazie alla forza interiore che gli era garantita dalla filosofia assunta come norma di vita. Durante le campagne militari contro i barbari che cominciavano a minacciare l’impero romano, nel ritiro della sua tenda e strappando ore al riposo notturno, compose in greco un diario intimo in otto libri, tramandato con il titolo A se stesso (di solito reso in italiano con Ricordi o Pensieri).
In questo colloquio interiore in forma di aforismi – che rendono priva di continuità ma forse proprio per questo più affascinante la lettura -, ritorna quasi ossessivo il pensiero della morte: “Ogni azione, ogni parola, ogni pensiero devono essere ispirati dalla consapevolezza che da un momento all’altro potresti uscire dalla vita” (II 11, trad. di G. Cortassa).
Ma l’imperatore filosofo più volte ne esorcizza la paura. In primo luogo, richiamando la possibilità di trovare un rifugio nell’intelletto, che solo ci può procurare la tranquillità necessaria per affrontare una vita così fragile e precaria: “E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola cosa, a un’unica cosa: la filosofia” (II 17, trad. di E. Turolla). Inoltre, cercando di convincerci che la morte non sia un male, ma una legge di natura, una semplice trasformazione della materia, come diventare giovani e poi vecchi, oppure crescere, mettere i denti, la barba e poi i capelli bianchi: “Questo infinitesimale frammento di tempo, quindi, trascorrilo secondo natura e concludilo in serenità, come l’oliva che, ormai matura, cadesse lodando la terra che l’ha prodotta e ringraziando l’albero che l’ha generata” (IV 48, trad. di E. V. Maltese).
Riflessioni amare e disincantate, ma la cui suggestione appare ancora più profonda perché nata dalla coscienza che anche l’imperatore, come l’ultimo degli schiavi, deve fronteggiare la paura della morte. Per questo Marco Aurelio è tra i più grandi e originali scrittori antichi, amico e confidente del lettore di tutti i tempi.
Credente o meno, nessuno mette in discussione che novembre sia il mese dedicato al ricordo dei defunti. Un ricordo che, inevitabilmente, porta con sé una riflessione sul mistero centrale dell'esistenza umana.
Credente o meno, nessuno mette in discussione che novembre sia il mese dedicato al ricordo dei defunti. Un ricordo che, inevitabilmente, porta con sé una riflessione sul mistero centrale dell’esistenza umana.
La morte è al centro anche dell’opera di Marco Aurelio, con il quale la filosofia stoica ascese al trono imperiale. Nominato imperatore nel 161 d.C., Marco Aurelio affrontò le responsabilità della sua carica proprio grazie alla forza interiore che gli era garantita dalla filosofia assunta come norma di vita. Durante le campagne militari contro i barbari che cominciavano a minacciare l’impero romano, nel ritiro della sua tenda e strappando ore al riposo notturno, compose in greco un diario intimo in otto libri, tramandato con il titolo A se stesso (di solito reso in italiano con Ricordi o Pensieri).
In questo colloquio interiore in forma di aforismi – che rendono priva di continuità ma forse proprio per questo più affascinante la lettura -, ritorna quasi ossessivo il pensiero della morte: “Ogni azione, ogni parola, ogni pensiero devono essere ispirati dalla consapevolezza che da un momento all’altro potresti uscire dalla vita” (II 11, trad. di G. Cortassa).
Ma l’imperatore filosofo più volte ne esorcizza la paura. In primo luogo, richiamando la possibilità di trovare un rifugio nell’intelletto, che solo ci può procurare la tranquillità necessaria per affrontare una vita così fragile e precaria: “E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola cosa, a un’unica cosa: la filosofia” (II 17, trad. di E. Turolla). Inoltre, cercando di convincerci che la morte non sia un male, ma una legge di natura, una semplice trasformazione della materia, come diventare giovani e poi vecchi, oppure crescere, mettere i denti, la barba e poi i capelli bianchi: “Questo infinitesimale frammento di tempo, quindi, trascorrilo secondo natura e concludilo in serenità, come l’oliva che, ormai matura, cadesse lodando la terra che l’ha prodotta e ringraziando l’albero che l’ha generata” (IV 48, trad. di E. V. Maltese).
Riflessioni amare e disincantate, ma la cui suggestione appare ancora più profonda perché nata dalla coscienza che anche l’imperatore, come l’ultimo degli schiavi, deve fronteggiare la paura della morte. Per questo Marco Aurelio è tra i più grandi e originali scrittori antichi, amico e confidente del lettore di tutti i tempi.
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