i lupi cattivi
15 Aprile 2010 Share

i lupi cattivi

 

Si intitola Did@mondo e, come si dice, già il nome è “tutto un programma”.

Anzi, tutto un acrostico, visto che enuncia le parole-chiave di un percorso di riflessione e approfondimento su alcuni temi cruciali legati alla mondialità: dai diritti umani alla nonviolenza, dalla pace ai nuovi stili di vita, dall’economia etica e solidale allo sviluppo sostenibile, alle buone pratiche per vivere l’intercultura a casa nostra.

Il tutto con un occhio di riguardo alla scuola e all’educazione delle giovani generazioni, con un taglio il più possibile didattico e divulgativo, e con il desiderio – forse ingenuo – di mettere a disposizione di insegnanti, educatori, animatori e quant’altri, una serie di spunti di discussione per lanciare tra i ragazzi – nonché tra i lettori tutti – alcuni semi di coscienza critica in tal senso.

Una rubrica, questa che si inaugura oggi sulle pagine de la fonte, senza pretese di esaustività, ma che aspira a diventare un piccolo angolo (in)formativo dove troveranno posto recensioni di saggi, film e riviste (di nuova o più vecchia data), resoconti di manifestazioni culturali, inviti alla consultazione di siti web dedicati, promozione di eventi e iniziative di respiro locale o nazionale – legati anche all’associazio- nismo molisano -, rassegnestampa, interviste e contributi di esperti dei vari ambiti considerati.

Cominciamo oggi con uno sguardo alle ultime novità sulla realtà delle multinazionali, presentando i risultati emersi di recente in un dossier di Valori. Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità, che lo scorso autunno ha pubblicato la classifica delle cinquanta aziende più irresponsabili del pianeta.

 

Adidas, Coca Cola, Mc Donald’s, Nike, Nestlé. E va bene che ne hanno combinate di tutti i colori ma è altrettanto vero che non sono più gli unici lupi cattivi della situazione e bisogna saperlo. È la rivista Valori, uno dei più accreditati mensili italiani specializzati in economia etica, a stilare la lista nera delle new entry fra i colossi aziendali colpevoli di mancanza di trasparenza nella gestione amministrativa e finanziaria, violazione dei diritti umani nel trattamento dei lavoratori e dei sindacalisti, alto impatto ambientale. Si tratta per lo più di imprese che non sono solitamente nel mirino delle campagne di protesta o di boicottaggio o che, peggio ancora, sono state sempre considerate impeccabili e possono, quindi, agire indisturbate alle spalle dei pesci grossi, e sotto il naso di consumatori ignari e felici.

È il caso per esempio di Volkswagen – da sempre considerata un modello di responsabilità sociale d’impresa per le ottime relazioni con le parti sociali, le condizioni di lavoro invidiabili e l’impegno a tutela dell’ambiente – che sembra aver pagato profumate tangenti ai sindacalisti, anche a suon di accompagnatrici e notti folli, per comprare il loro silenzio e consenso.

Armani, poi: le disumane condizioni di lavoro di alcuni lavoratori in una sua fabbrica indiana – denunciate dalla campagna “Abiti Puliti” – hanno recentemente consacrato re Giorgio a sovrano “degli abiti sporchi”, dopo che già rapporti di Greenpeace e degli Animalisti Italiani avevano rilevato l’alta concentrazione di muschi sintetici – pericolosi per l’uomo e per l’ambiente – nel profumo “She”, o lo smisurato uso di pellicce nei propri capi.

Insomma, occhi e orecchie aperti, anche perché ce n’è per tutti i gusti: la Pfizer, il più grande gruppo farmaceutico mondiale, è stata di recente accusata dal governo nigeriano di aver sperimentato, nel 1996, il Trovan, un antibiotico contro la meningite in una regione colpita da una gravissima epidemia, e di essere responsabile della morte di 11 delle 200 cavie. Bambini.

La Eni, un fiore all’occhiello dell’Italia nel mondo? Non proprio, o non più, se la sua attività estrattiva nell’Amaz- zonia ecuadoriana è stata oggetto di denunce per le nefaste conseguenze sulla salute delle comunità indigene. E contiamo pure il gruppo SanPaolo-Imi, che per il secondo anno consecutivo, nel 2007, si è aggiudicata il primo posto nella classifica della “banche armate”.

La lista è lunga, sbirciandola si incontrano le aziende più frequentate nel tran tran quotidiano di tutti: Enel, Shell, Total, Bayer, Siemens, Levi Strass… tante, troppe.

E le vecchie volpi? Come se la passano? Non troppo bene, a sentire Davide Ravasi, della Bocconi, secondo il quale i grandi marchi starebbero facendo davvero di tutto per (ri)guadagnarsi una buona reputazione, dopo che campagne di boicottaggio e di protesta hanno fortemente danneggiato la loro immagine, costringendole ad un’inversione di rotta, almeno di facciata, nel trattamento dei lavoratori e nella tutela dell’ambiente: ecco allora i controlli più rigidi sui fornitori, la costruzione di nuovi impianti ecologici, i programmi di sostegno ai paesi in via di sviluppo, le porte aperte alle ispezioni e quant’altro.

Emblematico è il caso di Nike, seguito per anni da David Shilling, dell’ICCR, il Centro Interreligioso sulla Responsabilità Sociale d’Impresa, un’orga- nizzazione con sede a New York che raggruppa 275 investitori istituzionali e fondi pensione di stampo religioso e che è oggi uno dei più potenti gruppi di pressione, promotore delle note, devastanti campagne di contestazione affinché Nike adottasse politiche di tutela dei lavoratori e dell’am- biente. Se ieri Nike non ammetteva neanche le violenze e le punizioni corporali che venivano inflitte nelle sue fabbriche, oggi la mappa di queste fabbriche compare in bella mostra sul sito dell’azienda, tanto per dirne una.

Sempre nel mondo dell’abbiglia- mento e della calzature sportive, anche Adidas ha fatto la sua parte di “buon samaritano” pur di salvarsi la pelle, rescindendo per esempio 32 contratti con altrettanti fornitori in Cina, Taiwan, Thailandia, Honduras, Messico, Turchia e Bulgaria.

Coca Cola: chi non ha mai sentito parlare di spreco di acqua potabile, violazione dei diritti dei lavoratori e incentivazione all’obesità infantile? Beh, oggi le cose vanno un po’ diversamente, se è vero che Coca Cola ha firmato un accordo col WWF col quale si impegna ad un uso più responsabile dell’acqua e che finalmente permette ispezioni in quelle fabbriche colombiane dove dagli anni ’90 si sono susseguiti numerosi assassinii di sindacalisti locali. Ultima, Apple, che nel 2007 ha siglato un impegno a rimuovere dai propri prodotti alcuni composti altamente tossici.

Attenzione a non credere che le vecchie signore vogliano diventare paladine dei diritti umani nel mondo: la strada è ancora lunga e i progressi che vengono alla luce, oltre ad essere motivati da puri interessi economici, continuano a convivere con una buona dose di marciume che giace nel sottobosco. Ma è confortante quello che afferma Christopher Avery, direttore del Business and Human Rights Resource Centre, un’organizzazione che collabora con Amnesty International per la tutela dei diritti umani: “Dieci anni fa non potevo neanche usare il termine “diritti umani” all’interno di un’azienda. Non mi avrebbero ascoltato. Oggi, invece, è una parola chiave nel vocabolario delle principali imprese”.  ☺

gadelis@libero.it 

 

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