La lotta c’è ma non si vede
4 Maggio 2017
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La lotta c’è ma non si vede

“La caratteristica saliente della lotta di classe nella nostra epoca è questa: la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i vincitori – termine molto apprezzato da chi ritiene che l’umanità debba inevitabilmente dividersi in vincitori e perdenti – sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti”. Questa affermazione di Luciano Gallino è forse il cuore di un piccolo libro (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza) che, se fossi ancora insegnante, adotterei come testo di storia contemporanea.

Il fatto è che della lotta di classe abbiamo, quando le abbiamo, visioni mitiche o incubi (dipende da che parte stai), piazze affollate, cortei rumorosi, pugni sollevati, cariche della polizia e simili. E pensiamo che nell’era beata dei cinguettii e delle levigate superfici bianche della mela morsicata non ci sia posto per il lezzo di sudore degli operai vocianti che fanno arricciare il naso ai colletti bianchi. Beh, ragazzi, non è così. Semplicemente, non è così.

Gallino ci spiega come siamo nel bel mezzo, storicamente parlando, di una nuova e diversa guerra di classe che forse è già stata vinta dai più forti, più scaltri, più ricchi. Prima di tutto, le classi esistono, eccome. Non date credito a chi vi racconta la favola dell’estinzione delle classi. No. Perché siamo tutti, chi da una parte chi dall’altra, dentro un comune destino. Che “non è termine astratto. Significa avere o no un buon livello di istruzione e poterlo trasmettere; poter scegliere o no dove e come abitare; vivere in salute più o meno a lungo; fare un lavoro gradito, professionalmente interessante oppure no; avere o non avere preoccupazioni economiche; dover temere oppure no che il più modesto incidente della vita quotidiana metta in serie difficoltà sé o la propria famiglia”. Piuttosto, quello che manca è la consapevolezza di queste divisioni di classe e la voglia di cambiare i rapporti di forza, cioè “mobilitarsi per tentare di migliorare, insieme con altri che si trovano nella medesima condizione, il proprio destino con diversi mezzi”.

È fin troppo evidente che la lotta di classe abbia aspetti economici e politici, meno lo è che ne abbia di culturali e propagandistici. Per esempio descrivere in modo negativo la posizione dell’avversario. Tipica è la narrazione, tanto cara ai ceti agiati che, stringi stringi, dice: sei povero? Arrangiati, l’hai voluto tu. È facile capire come i media diventino formidabili propagatori di interessate deformazioni della verità (su carta, in Tv, in rete) e che chi li controlla o li possiede influenzi potentemente le opinioni, specie quelle dei pigri e dei creduloni.

Quando è cominciata questa nuova lotta di classe? Dopo un trentennio di crescita economica e sociale, “verso il 1980 ha avuto inizio in molti paesi – Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Germania – quella che alcuni hanno poi definito una contro-rivoluzione” una specie di grande balzo all’indietro. Protagonisti ne sono “i proprietari di grandi patrimoni, i top manager, ossia gli alti dirigenti dell’industria e del sistema finanziario, i politici di primo piano che spesso hanno rapporti stretti con la classe economicamente dominante, i grandi proprietari terrieri”. Accanto a loro operano nuovi attori: una massa sterminata di denaro, nel mondo, che per l’80% è risparmio delle classi lavoratrici, viene gestita a totale discrezione dai cosiddetti investitori istituzionali, che decidono come, quando e quanto investire denaro altrui. E quando sbagliano e cadono, cadono in piedi, mentre il piccolo risparmiatore, magari, si toglie la vita.

Dove sta questa “classe dominante”? Un po’ dovunque. Che interesse ha? Quello di “limitare o contrastare lo sviluppo di classi sociali, classe operaia e classi medie, che possono in qualche misura intaccare il suo potere”.

Perché ha potuto vincere questa controffensiva? Perché i parlamenti, dominati dalle lobbie, hanno approvato tutte le leggi, i regolamenti, le direttive funzionali al disegno egemonico del capitalismo internazionale, il quale si sdebita finanziando le campagne elettorali (e magari le primarie in Italia) di chi ne diventa il terminale politico. Per non restare nell’astratto, Gallino fa un nome: Davos, la località dove si incontrano i leader di questa lobbies mondiale.

Stiamo, insieme all’autore, esagerando? No. A oltre otto anni dallo scoppio della grande crisi, non è stata effettuata nessuna approfondita riforma del sistema finanziario. Anzi, le banche hanno ingoiato vagonate di miliardi senza restituire lavoro.

Qui mi accorgo che lo spazio è finito e la spia segnala rosso. Ma avrete capito che è un libro che racconta, con la testarda incorruttibilità delle cifre, una storia di sopraffazione e di ingiustizia, dalla quale possiamo tuttavia riscattarci.

Gallino, nella parte finale del libro, si concentra sugli strumenti che abbiamo a disposizione per cominciare la nostra controffensiva in nome di desueti valori come l’eguaglianza e la libertà di gestire il proprio “destino”. Strumenti incruenti, s’intende. Ma non maneggiabili senza una buona dose d’impegno, di serietà, di responsabilità verso il bene comune.
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