Quando si elencano i comandamenti, così come li abbiamo appresi al catechismo, non si ha la consapevolezza che essi sono frutto di un aggiustamento “ideologico” dovuto al contesto storico moralistico del ventesimo secolo. Abbiamo così frainteso il sesto comandamento, che riguarda l’adulterio, la messa in discussione, cioè, dell’elemento fondante della stabilità per la conservazione del gruppo (di questo si trattava nel mondo antico) traducendolo in modo alquanto ambiguo: “non commettere atti impuri”, creando così una società di uomini schiacciati da sensi di colpa riguardo al corpo ma assolutamente tranquilli nel maneggiare armi per la gloria della patria (questo sì che è un atto veramente impuro, per restare nella metafora).
C’è poi un comandamento che ha avuto una storia di fraintendimento molto più antica: si tratta del settimo comandamento, comunemente inteso come “non rubare”. Usato in senso assoluto questo comando ha giustificato la sperequazione sociale, il diritto dei ricchi ad accumulare beni, difesi ben prima che da sofisticati congegni elettronici, dal divieto “divino” della intangibilità della proprietà privata per cui i poveri potrebbero solo chiedere la carità dei ricchi, non una distribuzione equa delle risorse; il diritto a possedere beni a scapito degli altri è stato così inserito nel cuore dei comandamenti. In realtà il senso proprio di quel verbo non è “rubare” bensì “rapire” e riguarda la salvaguardia della vita fisica di ogni persona, senza distinzione di ceto. Il comandamento era sorto all’interno di un contesto storico in cui uno dei modi per procurasi schiavi (cioè manodopera da sfruttare) era, oltre alla guerra, anche il rapimento o la vendita di persone libere (ne è un esempio la storia di Giuseppe rapito e venduto dai fratelli). Il settimo comandamento riguarda quindi la privazione della persona della propria dignità e della propria libertà. La riduzione in schiavitù comportava, inoltre, l’esposizione continua alla morte in quanto lo schiavo era per gli antichi nient’altro che una bestia da lavoro da sfruttare fino allo sfinimento (solo nella Legge biblica c’erano regole di tutela anche per gli schiavi, ma non a caso quella legge fu data a un popolo di schiavi liberati!). Ecco perché il settimo comandamento viene tra il quinto (non uccidere) e l’ottavo (non testimoniare il falso in tribunale dove è in gioco la vita e la morte di un simile).
Ma cosa dice a noi oggi un simile comandamento? Qual è il modo di togliere la dignità della persona riducendola in schiavitù? Prendiamo l’esempio del terremoto e delle sue conseguenze: il non aver attuato un uso serio delle risorse a disposizione per la ricostruzione, ma l’averle stornate per interessi di bottega di tutti coloro che potevano decidere, ha provocato un’accele- razione della già endemica tendenza all’arretratezza delle nostre zone, costringendo molti di coloro che avrebbero potuto, e voluto, restare per ricostruire non solo muri ma la speranza nel futuro, a lasciare la propria terra, esattamente come quegli uomini che nell’antichità erano rapiti per essere venduti come schiavi, allontanati dalla loro terra. La vicenda molisana, d’altronde, nel suo piccolo ma altrettanto drammatico esito, riflette la situazione dell’intero mondo in epoca di globalizzazione: il furto delle risorse e le forme di neocolonialismo hanno ridotto l’ex mondo in via di sviluppo in produttore di disperati, che fuggono per cercare di ritrovare la speranza di cui sono privati dai giochi spietati della finanza. In tal modo nel nostro contesto storico sia locale che globale, il senso originario e l’interpretazione corrente del settimo comandamento vengono fatalmente a ricongiungersi, ma le vittime del furto non sono più quei ricchi che si paravano dietro al comando sacrosanto per accumulare ricchezze, bensì la massa smisurata di disperati che, privati del minimo necessario per vivere dall’ingordigia del mercato, sono continuamente esposti alla morte, sia restando nelle loro terre che emigrando verso altre terre che li respingono indietro pur essendo all’origine della loro disperazione.
Guardando ancora al nostro piccolo mondo molisano, la sottrazione delle risorse per lo sviluppo, quindi, non è semplicemente sottrazione di beni materiali, ma ancor di più sottrazione del futuro, della possibilità di continuare a vivere nella propria terra. Purtroppo la storia non insegna nulla proprio a quei politicanti dissennati che nel frattempo fanno viaggi all’estero e stanziano fondi per celebrare le vecchie emigrazioni nate dalle ingiustizie perpetrate dai loro predecessori, non pensando che il passato deve essere ricordato per non ripeterne gli errori. ☺
mike.tartaglia@virgilio.it
Quando si elencano i comandamenti, così come li abbiamo appresi al catechismo, non si ha la consapevolezza che essi sono frutto di un aggiustamento “ideologico” dovuto al contesto storico moralistico del ventesimo secolo. Abbiamo così frainteso il sesto comandamento, che riguarda l’adulterio, la messa in discussione, cioè, dell’elemento fondante della stabilità per la conservazione del gruppo (di questo si trattava nel mondo antico) traducendolo in modo alquanto ambiguo: “non commettere atti impuri”, creando così una società di uomini schiacciati da sensi di colpa riguardo al corpo ma assolutamente tranquilli nel maneggiare armi per la gloria della patria (questo sì che è un atto veramente impuro, per restare nella metafora).
C’è poi un comandamento che ha avuto una storia di fraintendimento molto più antica: si tratta del settimo comandamento, comunemente inteso come “non rubare”. Usato in senso assoluto questo comando ha giustificato la sperequazione sociale, il diritto dei ricchi ad accumulare beni, difesi ben prima che da sofisticati congegni elettronici, dal divieto “divino” della intangibilità della proprietà privata per cui i poveri potrebbero solo chiedere la carità dei ricchi, non una distribuzione equa delle risorse; il diritto a possedere beni a scapito degli altri è stato così inserito nel cuore dei comandamenti. In realtà il senso proprio di quel verbo non è “rubare” bensì “rapire” e riguarda la salvaguardia della vita fisica di ogni persona, senza distinzione di ceto. Il comandamento era sorto all’interno di un contesto storico in cui uno dei modi per procurasi schiavi (cioè manodopera da sfruttare) era, oltre alla guerra, anche il rapimento o la vendita di persone libere (ne è un esempio la storia di Giuseppe rapito e venduto dai fratelli). Il settimo comandamento riguarda quindi la privazione della persona della propria dignità e della propria libertà. La riduzione in schiavitù comportava, inoltre, l’esposizione continua alla morte in quanto lo schiavo era per gli antichi nient’altro che una bestia da lavoro da sfruttare fino allo sfinimento (solo nella Legge biblica c’erano regole di tutela anche per gli schiavi, ma non a caso quella legge fu data a un popolo di schiavi liberati!). Ecco perché il settimo comandamento viene tra il quinto (non uccidere) e l’ottavo (non testimoniare il falso in tribunale dove è in gioco la vita e la morte di un simile).
Ma cosa dice a noi oggi un simile comandamento? Qual è il modo di togliere la dignità della persona riducendola in schiavitù? Prendiamo l’esempio del terremoto e delle sue conseguenze: il non aver attuato un uso serio delle risorse a disposizione per la ricostruzione, ma l’averle stornate per interessi di bottega di tutti coloro che potevano decidere, ha provocato un’accele- razione della già endemica tendenza all’arretratezza delle nostre zone, costringendo molti di coloro che avrebbero potuto, e voluto, restare per ricostruire non solo muri ma la speranza nel futuro, a lasciare la propria terra, esattamente come quegli uomini che nell’antichità erano rapiti per essere venduti come schiavi, allontanati dalla loro terra. La vicenda molisana, d’altronde, nel suo piccolo ma altrettanto drammatico esito, riflette la situazione dell’intero mondo in epoca di globalizzazione: il furto delle risorse e le forme di neocolonialismo hanno ridotto l’ex mondo in via di sviluppo in produttore di disperati, che fuggono per cercare di ritrovare la speranza di cui sono privati dai giochi spietati della finanza. In tal modo nel nostro contesto storico sia locale che globale, il senso originario e l’interpretazione corrente del settimo comandamento vengono fatalmente a ricongiungersi, ma le vittime del furto non sono più quei ricchi che si paravano dietro al comando sacrosanto per accumulare ricchezze, bensì la massa smisurata di disperati che, privati del minimo necessario per vivere dall’ingordigia del mercato, sono continuamente esposti alla morte, sia restando nelle loro terre che emigrando verso altre terre che li respingono indietro pur essendo all’origine della loro disperazione.
Guardando ancora al nostro piccolo mondo molisano, la sottrazione delle risorse per lo sviluppo, quindi, non è semplicemente sottrazione di beni materiali, ma ancor di più sottrazione del futuro, della possibilità di continuare a vivere nella propria terra. Purtroppo la storia non insegna nulla proprio a quei politicanti dissennati che nel frattempo fanno viaggi all’estero e stanziano fondi per celebrare le vecchie emigrazioni nate dalle ingiustizie perpetrate dai loro predecessori, non pensando che il passato deve essere ricordato per non ripeterne gli errori. ☺
Quando si elencano i comandamenti, così come li abbiamo appresi al catechismo, non si ha la consapevolezza che essi sono frutto di un aggiustamento “ideologico” dovuto al contesto storico moralistico del ventesimo secolo. Abbiamo così frainteso il sesto comandamento, che riguarda l’adulterio, la messa in discussione, cioè, dell’elemento fondante della stabilità per la conservazione del gruppo (di questo si trattava nel mondo antico) traducendolo in modo alquanto ambiguo: “non commettere atti impuri”, creando così una società di uomini schiacciati da sensi di colpa riguardo al corpo ma assolutamente tranquilli nel maneggiare armi per la gloria della patria (questo sì che è un atto veramente impuro, per restare nella metafora).
C’è poi un comandamento che ha avuto una storia di fraintendimento molto più antica: si tratta del settimo comandamento, comunemente inteso come “non rubare”. Usato in senso assoluto questo comando ha giustificato la sperequazione sociale, il diritto dei ricchi ad accumulare beni, difesi ben prima che da sofisticati congegni elettronici, dal divieto “divino” della intangibilità della proprietà privata per cui i poveri potrebbero solo chiedere la carità dei ricchi, non una distribuzione equa delle risorse; il diritto a possedere beni a scapito degli altri è stato così inserito nel cuore dei comandamenti. In realtà il senso proprio di quel verbo non è “rubare” bensì “rapire” e riguarda la salvaguardia della vita fisica di ogni persona, senza distinzione di ceto. Il comandamento era sorto all’interno di un contesto storico in cui uno dei modi per procurasi schiavi (cioè manodopera da sfruttare) era, oltre alla guerra, anche il rapimento o la vendita di persone libere (ne è un esempio la storia di Giuseppe rapito e venduto dai fratelli). Il settimo comandamento riguarda quindi la privazione della persona della propria dignità e della propria libertà. La riduzione in schiavitù comportava, inoltre, l’esposizione continua alla morte in quanto lo schiavo era per gli antichi nient’altro che una bestia da lavoro da sfruttare fino allo sfinimento (solo nella Legge biblica c’erano regole di tutela anche per gli schiavi, ma non a caso quella legge fu data a un popolo di schiavi liberati!). Ecco perché il settimo comandamento viene tra il quinto (non uccidere) e l’ottavo (non testimoniare il falso in tribunale dove è in gioco la vita e la morte di un simile).
Ma cosa dice a noi oggi un simile comandamento? Qual è il modo di togliere la dignità della persona riducendola in schiavitù? Prendiamo l’esempio del terremoto e delle sue conseguenze: il non aver attuato un uso serio delle risorse a disposizione per la ricostruzione, ma l’averle stornate per interessi di bottega di tutti coloro che potevano decidere, ha provocato un’accele- razione della già endemica tendenza all’arretratezza delle nostre zone, costringendo molti di coloro che avrebbero potuto, e voluto, restare per ricostruire non solo muri ma la speranza nel futuro, a lasciare la propria terra, esattamente come quegli uomini che nell’antichità erano rapiti per essere venduti come schiavi, allontanati dalla loro terra. La vicenda molisana, d’altronde, nel suo piccolo ma altrettanto drammatico esito, riflette la situazione dell’intero mondo in epoca di globalizzazione: il furto delle risorse e le forme di neocolonialismo hanno ridotto l’ex mondo in via di sviluppo in produttore di disperati, che fuggono per cercare di ritrovare la speranza di cui sono privati dai giochi spietati della finanza. In tal modo nel nostro contesto storico sia locale che globale, il senso originario e l’interpretazione corrente del settimo comandamento vengono fatalmente a ricongiungersi, ma le vittime del furto non sono più quei ricchi che si paravano dietro al comando sacrosanto per accumulare ricchezze, bensì la massa smisurata di disperati che, privati del minimo necessario per vivere dall’ingordigia del mercato, sono continuamente esposti alla morte, sia restando nelle loro terre che emigrando verso altre terre che li respingono indietro pur essendo all’origine della loro disperazione.
Guardando ancora al nostro piccolo mondo molisano, la sottrazione delle risorse per lo sviluppo, quindi, non è semplicemente sottrazione di beni materiali, ma ancor di più sottrazione del futuro, della possibilità di continuare a vivere nella propria terra. Purtroppo la storia non insegna nulla proprio a quei politicanti dissennati che nel frattempo fanno viaggi all’estero e stanziano fondi per celebrare le vecchie emigrazioni nate dalle ingiustizie perpetrate dai loro predecessori, non pensando che il passato deve essere ricordato per non ripeterne gli errori. ☺
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