Libertà negate
14 Ottobre 2019
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Libertà negate

Diritti e divieti. Labili confini, barriere che si spostano e cambiano al mutare delle latitudini e della posizione geografica.

Situazioni che si vengono a creare, figlie delle diverse culture dei popoli, spesso in conflitto con l’evoluzione dell’essere umano, altrettanto anacronistiche, che ci fanno riflettere su quelle libertà di movimento che diamo per scontate, che riteniamo acquisite a prescindere perché frutto di conquiste non nostre, ma che per molti nostri fratelli non sono tali, in quanto rappresentano ancora una vetta da scalare, forse irraggiungibile.

Dall’Italia all’Iran la distanza è abissale. Non solo per l’enorme distanza geografica che ci separa dallo stato persiano, ma soprattutto per la constatazione che le libertà negate non ci appaiono tali, se non ne prendiamo coscienza in maniera spesso cruenta. In tal senso, la storia della tifosa iraniana Sahar è di quelle che lasciano il segno. Appena ventinove anni, soprannominata “ragazza blu” perché amava vestire la maglia dell’Esteglal di Teheran, sua squadra del cuore, allenata tra forti contrasti dal tecnico italiano Andrea Stramaccioni. Lo sport, il piacere di tifare la propria squadra, se si è di genere femminile, a quelle latitudini può essere addirittura fatale. Lo è stato, in questo caso: lo scorso 9 settembre, Sahar, la ragazza blu, è morta in un ospedale di Teheran per le ustioni riportate qualche giorno prima, quando si diede fuoco per protestare contro la magistratura della Repubblica islamica che l’aveva condannata a sei mesi di carcere per essere entrata nello stadio Azadi – termine che paradossalmente significa libertà – di Teheran, un luogo che è vietato al genere femminile dal lontano 1981.

Sembra una storia di un altro mondo e di un altro tempo, che stride in modo violento con l’idea di stadio come dovrebbe essere normalmente intesa e cui siamo abituati, con un pubblico misto composto di donne, uomini, bambini, famiglie, nonostante gli episodi razzisti che pur non sono meno violenti, ma che nulla hanno a che vedere con la perdita della vita dovuta alla negazione di guardare una partita di calcio o di vivere un momento di sport.

Nel paese che fu di Khomeini, quel divieto non è legge, ma viene imposto con severità, e le giovani generazioni, giustamente, non ne comprendono il senso e per questo protestano contro il regime dei Pasdaran e per aggirare l’ostacolo le donne sono costrette a travestirsi da uomini, come aveva fatto Sahar lo scorso mese di marzo, togliendosi il velo ed indossando una parrucca da uomo per confondersi tra i tifosi, ma purtroppo era stata scoperta e arrestata. Con lei, tante altre erano state fermate. Sahar viene arrestata, trascorre tre giorni in cella in un carcere ritenuto tra i peggiori per condizioni di vita, esce su cauzione, ma sei mesi dopo finisce in tribunale senza un avvocato a difenderla. Il giudice non si presenta all’udienza, il motivo resterà sconosciuto. La fatalità vuole che Sahar abbia dimenticato il cellulare in tribunale, e rientrando per recuperarlo, in aula, sente qualcuno che parla di una condanna tra i sei mesi e i due anni di reclusione per oltraggio al pudore. All’ uscita del tribunale, presa dallo sconforto, la giovane donna si dà fuoco. È l’atto estremo che le causa ustioni al novanta percento del corpo, un quadro clinico che la porterà in breve alla morte, dopo appena una settimana.

Sahar diventa il simbolo della battaglia, in un paese dove ogni cosa può assumere una connotazione politica. Lo sport è dissenso, l’arte è dissenso, il calcio è dissenso.

Il suo sacrificio, che ha scosso il paese come un enorme terremoto, tuttavia, non è stato vano. Accettando le pressioni forti della F.I.F.A., il governo iraniano ha deciso che le prossime partite internazionali saranno aperte alle donne, segno che la coscienza di tutti è stata colpita nel profondo, poiché tutti hanno visto in quel gesto un’ingiustizia suprema, una distanza ormai ancestrale ed inutile tra le regole della struttura giudiziario-religiosa ed il sentire comune del popolo iraniano, che vuole vivere civilmente.

Come è accaduto anche in altri paesi, il cammino delle donne verso la completa libertà è ancora lungo, ma la sensibilizzazione del problema, come anche la semplice conoscenza del fatto stesso, è l’auspicio che induce tutti noi a farci portatori di un messaggio di ammonimento delle coscienze, rivolte verso altro, poiché un tema così lontano da noi sembra non appartenerci.

Il monito è rivolto anche ai giovani, affinché si soffermino sulla lettura di queste brevi considerazioni, aprendo una finestra su un’azione – quella di andare liberamente allo stadio – che nelle democrazie occidentali viene compiuta con disinvoltura, ma che altrove può costare la vita. Lottiamo per chi questa stessa libertà, a migliaia di chilometri di distanza, non ce l’ha. ☺

 

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